Il folle uomo che accese una lanterna di giorno al mercato cercando dio, deriso dai molti uomini presenti, è tornato. Ricordiamo tutti l’aforisma 125 della “Gaia scienza”, il senso di vertigine che Nietzsche descriveva conseguenza della consapevolezza della morte di dio: «Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte?»
Ancora oggi la difficoltà di accettare un lutto, e un lutto così grave, è molto difficile. Quello che è morto oggi è il capitalismo, il sistema economico occidentale che ha dato ricchezza e prosperità, sviluppo e benessere a tutti noi, europei, italiani e fermani. Lo notava già, qualche anno fa, Slavoj Žižek in un interessante libro del 2010, “Vivere alla fine dei tempi”. Lui diceva che il capitalismo stava morendo, colpito da una malattia terminale. La reazione che la cultura occidentale aveva con la notizia dell’imminente dipartita del capitalismo, diceva Žižek, è la stessa che hanno coloro che sono colpiti da malattia terminale: rifiuto, collera, venire a patti, depressione e accettazione. Ora che il capitalismo è morto, però, bisogna elaborarne il lutto.
Per prima cosa ne va accertata la morte. Il capitalismo si basava su alcuni presupposti fondamentali che non ci sono più perché sono morti con lui. Il primo è la possibilità di accumulare e concentrare denaro per investirlo come strumento di produzione e quindi come motore della ricchezza, una ricchezza progressiva e proporzionale all’accumulazione di capitale. Il secondo è la possibilità di partecipare a questa ricchezza prodotta dal capitale attraverso il lavoro e di crescere ed emanciparsi socialmente e culturalmente grazie al lavoro. Ebbene questi presupposti non ci sono più. Mi rendo perfettamente conto che i critici del capitalismo hanno messo in evidenza contraddizioni e limiti già al suo sorgere, anche di tipo analitico. Ma quello che qui è in gioco non è la morte del capitalismo ucciso dai suoi oppositori. È morto il capitalismo da sé, nei suoi presupposti.
Accumulare e concentrare denaro non è più possibile e quando qualcuno ci riesce non produce ricchezza. Il sistema finanziario, banche in testa, si sono trasformate in freni dello sviluppo capitalistico. Chiudono più aziende per colpa delle banche di quante aprono grazie a loro. Il sistema del debito, corollario importante del sistema capitalista, si è trasformato in puro strozzinaggio oppure in “sistema finanziario”, cioè il ritorno e la vendetta dei rentier, i nemici numero uno del capitalismo al suo sorgere. Quei pochi che riescono ancora a produrre e “stare sul mercato”, come si dice, non producono ricchezza, al massimo producono stipendi, producono oggetti sempre meno utili ed esternalità negative per l’ambiente e per la società intera. Il lavoro, poi, imbrigliato nelle maglie strette e soffocanti del mercato, non dà la possibilità di partecipare a nessuna ricchezza: chi lavora al massimo sopravvive. E non garantisce nulla dal punto di vista dell’emancipazione sociale e culturale.
La morte del capitalismo sta creando smarrimento e vertigine. Come quella del pazzo di Nietzsche. Quella della morte di dio. Ed è chiaro il motivo: perché il capitalismo è stato la religione dominante degli ultimi secoli e il capitale, il denaro e il mercato i suoi dei. Il dio mercato, ad esempio, ha tutti gli attributi che la teologia cristiana ha dato al suo dio: è “onnisciente”, il sistema dei prezzi consente al mercato di avere più informazioni di qualsiasi altro sistema sulla terra; è “onnipotente”, perché capace di autoregolarsi; “assoluto” perché ogni altra legge diversa dalla sua è ostacolo al suo funzionamento. Il dio denaro è stato il principio speranza di ogni uomo occidentale e poi mondiale, in lui si sono riversate le risorse umane e materiali per soddisfare ogni bisogno, per realizzare ogni sogno, fino, addirittura, per elaborare i sogni.
Non si tratta più di vivere alla fine dei tempi, come dice Žižek, ma di sopravvivere in un ambiente post-apocalittico. La fine dei tempi è arrivata. La bestia di Apocalisse 13, che «fa sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, ricevano un marchio sulla mano destra o sulla fronte, e che nessuno possa comprare o vendere senza avere tale marchio», già additata Karl Marx, ha distrutto tutto. Le periferie hanno invaso anche le nostre pacifiche provincie, seminando macerie nelle zone industriali deserte, nelle case e nei negozi in vendita, nelle colate di cemento senza cura, nelle montagne di immondizia, nei laghi di percolato. La disperazione di chi non ha più punti di riferimento e principii speranza ha invaso la vita di tutti, seminando morte tra quelli che non riescono a capacitarsi dell’impossibilità di ripagare debiti, costruendo muri per difendere i due spiccioli rimasti, minacciando violenza a tutti quelli che si avvicinano, pregiudizialmente ladri e impostori.
Senza elaborazione del lutto la civiltà occidentale ha chiuso. Le libertà e i diritti dello stato liberale avevano senso se inseriti in una crescita economica chiamata “sviluppo”, ideologicamente additata come “progresso”. Nel tutti contro tutti della desolazione post-apocalittica lo sguardo miope della sentinella non cerca più nuovi orizzonti o, al limite, la fine della notte. Cerca ombre di nemici invisibili che sono solo dentro di lui. La morte dei deboli e dei lenti con le sue retoriche violente ed escludenti non deve ingannare, non deve far pensare ad una ripresa delle logiche spietate ma positive del mercato e della meritocrazia. No, è semplicemente la miope lotta per la sopravvivenza di chi non ha ancora capito che il dio capitale è morto e bisogna farsene una ragione, senza rischiare di diventare come i giapponesi nelle isole del pacifico.
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