Una delle esperienze che hanno segnato il periodo di quarantena in Italia è la didattica a distanza. La stragrande maggioranza delle famiglie italiane ne è stata toccata o perché sono presenti insegnanti in famiglia o perché, la maggior parte, hanno bambini e ragazzi in età scolastica. E i giudizi sono stati unanimi: una schifezza. A parte i ringraziamenti sentiti per tutti gli insegnanti che in questi mesi hanno lavorato il doppio per riconvertirsi in esperti digitali e youtuber, che hanno tenuti impegnati i nostri figli in un periodo di reclusione sconvolgente per la vita di bambini e adolescenti, a parte tutto questo la didattica a distanza è stata un fallimento pedagogico totale. Se ne sono accorti tutti. Famiglie, ragazzi e docenti. Lo potete leggere ed ascoltare ovunque: sui social, agli incontri insegnanti famiglie, sulle chat delle mamme, alle riunioni degli insegnanti (in alcuni casi sfociate in documenti ufficiali di protesta), ora si inizia anche a raccontarlo per strada. Giudizi di cui non abbiamo motivo di dubitare. Ma perché?
Proviamo ad analizzare quello che è successo. Partiamo dai nomi dati alle cose accadute che aiutano molto a capire. Didattica “a distanza” presuppone una difficoltà, quella di non essere in presenza: nessuno ha mai chiamato la didattica normale, quella tradizionale in aula, didattica “in presenza”, è stata sempre “la” didattica senza bisogno di aggettivi. La didattica “a distanza”, presupponendo il problema, necessita una soluzione: gli strumenti digitali di comunicazione. E tutti, chi più chi meno, chi con entusiasmo (pochi) chi contro voglia (molti), li hanno utilizzati. Ma sono stati utilizzati solo per colmare la “distanza”, cioè risolvere il problema. Non per altro. Tutto il resto è rimasto uguale. La “didattica” è rimasta la stessa. Nell’illusione che i sistemi digitali di comunicazione, in qualche modo, avessero risolto la distanza in una nuova forma di presenza. Purtroppo, però, la comunicazione digitale non riporta la distanza in presenza. E se ne sono accorti tutti.
Sarebbe stato più corretto chiamare la didattica a distanza per ciò che avrebbe dovuto essere: didattica digitale. Sono anni che si sperimenta, e in molti casi con successo, la didattica digitale. Ma in Italia non si è mai diffusa. La didattica digitale non ha nulla a che vedere con la distanza o la presenza: si può fare didattica digitale anche in presenza, anzi le sperimentazioni e le realizzazioni sono state fatte sempre in presenza con le famose classi 2.0. La didattica digitale si occupa di “didattica”, di cambiare il modo di fare scuola prendendo atto delle trasformazioni nel sapere e nella comunicazione del sapere che hanno introdotto gli strumenti digitali, non di presenza o distanza. L’opposto della didattica digitale è la didattica “gutenberghiana” come la chiama Paolo Ferri, uno che di didattica digitale se ne occupa da decenni, quella didattica che ha nel libro a stampa il proprio modello di riferimento.
Nel libro a stampa e nella didattica gutenberghiana la trasmissione del sapere avviene in maniera lineare e progressiva attraverso l’autorevolezza (che può sfociare in esercizio di autorità) dell’autore e dell’insegnante. Tutti noi abbiamo sperimentato nella nostra esperienza scolastica questo tipo di didattica. Il sapere da apprendere proveniva dall’insegnante e dal libro, entrambi proponevano un apprendimento progressivo (dal più semplice al più complesso) e lineare (per capire qualcosa di nuovo bisognava sapere quello vecchio). L’unico comportamento che potevamo avere noi alunni era studiare, che tradotto significava “leggere e ripetere”. Poi dimostrare di possedere quelle conoscenze ripetendo all’insegnante, in forma scritta od orale, ciò che avevamo studiato. Questo sistema è stato inventato dai padri gesuiti nel XVII secolo e utilizzato, con pochissimi cambiamenti nessuno dei quali sostanziali, fino ad oggi. Solo le scuole per l’infanzia e le scuole elementari hanno inaugurato, negli ultimi decenni, forme didattiche diverse, più o meno attive ma considerate dalla classe insegnante tutta roba per bambini, di poco valore: già alle scuole medie si abbandona quanto di innovativo messo in campo alle elementari per riprendere il vecchio sistema che diventa ancora più completo e definitivo nei licei, vero baluardo della didattica gutenberghiana.
In un ambiente digitale, invece, tutto questo non funziona. Il sistema a rete, proprio dell’ambiente digitale, rompe ogni forma di autorità, e l’autorevolezza va conquistata ogni volta sul campo, mai acquisita definitivamente, perché siamo tutti nodi, tutti alla pari. Il sapere digitale è moltiplicato in maniera esponenziale rispetto a quello gutenberghiano e fortemente frammentato in una miriade di rimandi, di lessie interconnesse tra loro senza progressioni o linearità. Un testo digitale, a differenza di un libro a stampa, viene costruito dal lettore che “naviga” tra le risorse digitali in maniera assolutamente soggettiva e imprevedibile. In un ambiente digitale non si studia, non si legge e ripete, si fa ricerca, si sperimenta, si aprono nuovi orizzonti. L’apprendimento della conoscenza serve anche in un ambiente digitale ma non è il fine dell’attività didattica è solo uno strumento utile a risolvere problemi.
Quello digitale è un ambiente decisamente opposto a quello gutenberghiano tipico delle nostre scuole. Non si può replicare la didattica gutenberghiana in ambiente digitale come è stato fatto nella didattica a distanza. Viene una schifezza. Accettabile in un momento eccezionale come la chiusura da pandemia ma non si vede l’ora che termini l’emergenza per ritornare a scuola riprendere i vecchi ritmi e le vecchie sicurezze del banco, dei libri, dei compiti in classe e delle interrogazioni. Fare i compiti in classe o interrogazioni orali per misurare le conoscenze in ambiente digitale è un assurdo logico. Se ne sono accorti tutti quelli che lo hanno sperimentato in questi mesi. Il ruolo dell’insegnante non può essere quello del trasmettitore di sapere e controllore delle conoscenze perché quel sapere è già presente in tantissimi ambienti ed è accessibile liberamente a chiunque. L’insegnante deve, invece, assumere il ruolo di guida in un percorso di ricerca, saper condurre gli alunni a orientarsi e decifrare la miriade di notizie e informazioni presenti in questi ambienti. Copiare, che è lo spauracchio della didattica gutenberghiana, il grande nemico di ogni insegnante tradizionale, è invece la grande opportunità della didattica digitale, perché copiare significa cercare risorse utili a risolvere una questione, un dubbio, un problema, saperle individuare e utilizzare in maniera critica. Questo significa copiare ed è una grande competenza da coltivare non solo in ambiente digitale.
Se la didattica a distanza fosse stata una didattica digitale, come avrebbe dovuto essere visto l’utilizzo di strumenti digitali, e non una replica della didattica gutenberghiana, allora i giudizi sarebbero stati diversi e i nostri ragazzi e i loro insegnanti avrebbero forse lavorato di più ma sicuramente lavorato meglio. Ma si fa tanto per dire, ovviamente, perché ritorneremo presto nelle nostre rassicuranti aule scolastiche a svolgere la nostra solita didattica lamentandoci di quando eravamo a distanza e di come si stava male.
Trovare altre metodologie