Ho aspettato un po’ per esprimere un commento sulle reazioni che hanno accompagnato il ritorno a casa di Silvia Romano e la sua evidente conversione all’Islam per far decantare quelle reazioni, sedimentare quanto di stupido ed emozionale era in esse presente e far emergere le cose davvero interessanti. Ora, però, a distanza di un mese dal ritorno a casa della ragazza vorrei riprendere quanto di positivo è emerso in quel “dibattito” per mostrare la rilevanza politica di un gesto antico ma quasi dimenticato nella cultura occidentale contemporanea: la conversione religiosa.
Tra le reazioni che opinionisti più o meno autorevoli hanno espresso nei giorni successivi al ritorno in Italia della ragazza sequestrata in Kenya e convertita all’Islam ce ne sono due che per gli argomenti proposti e la serietà dell’impostazione vanno presi in considerazione: 1. la conversione religiosa è un fatto privato, intimo, non può e non deve entrare nel dibattito pubblico che così si trasforma in un patologico voyeurismo sociale; 2. quella svolta durante un sequestro, in piena violenta prigionia, non può essere considerata vera conversione perché quest’ultima presuppone un regime di libertà totale, di tranquillità esistenziale priva di condizionamenti esterni che limitano l’esercizio della libertà religiosa.
Due argomenti che utilizzano categorie politiche tipiche dell’epoca moderna occidentale: la distinzione tra pubblico e privato e il rapporto conflittuale tra autorità e libertà. Necessitano, quindi, di un approfondimento, proprio per le implicazioni politiche che essi portano con loro. Non si può evitare di notare il ruolo sempre più pubblico e politico delle religioni, soprattutto nelle loro manifestazioni fondamentaliste. Come non si può nascondere la difficoltà che incontrano gli Stati europei e occidentali in generale nel governare il pluralismo religioso e la sua libertà senza un esercizio deciso dell’autorità. Proverò a ragionare intorno a queste categorie a partire dall’atto imprevisto quanto radicale di Silvia Romano.
1. Si è detto che la conversione di Silvia Romano fa parte della sua vita privata, addirittura della sua coscienza che è insindacabile e va lasciata libera di esprimersi come vuole. Musulmana, cristiana, buddista, atea che sia la scelta della vita religiosa e spirituale di chiunque non è un affare pubblico. Sono queste le argomentazioni, apparentemente sensate, messe in campo da alcuni commentatori. Argomentazioni legate ad una categoria della vita sociale ritenuta normale, banale, addirittura naturale: la distinzione tra la vita privata e la vita pubblica, e che la scelta religiosa faccia parte della vita privata. Ma naturale non è. Ed oggi è entrata profondamente in crisi.
Mi piacerebbe fare con voi un percorso storico archeologico sull’evoluzione delle categorie pubblico-privato a partire dal rapporto vita politica e vita domestica dell’antichità classica ma ve la risparmio. Sarebbe stato interessante ma vi voglio bene. Quello che bisogna sapere, comunque, è che in epoca moderna la religione, che aveva sempre adempiuto ad un ruolo pubblico nell’esercizio del culto e nella espressione simbolica dell’identità popolare, pian piano viene inserita tra le espressioni tipiche della vita privata. Almeno qui da noi, in Europa. Non senza conflitti. Anzi.
Tutto è iniziato quando il cristianesimo ha iniziato ad occuparsi quasi esclusivamente di un aspetto della vita religiosa che è quello della cura delle anime. Sia in ambito cattolico che protestante (meno in quello ortodosso) divenne centrale la formazione della coscienza individuale e dell’identità personale. Molto individualista e quindi molto privata. Formazione esercitata però da una istituzione, la chiesa, qualsiasi chiesa cristiana, il cui monopolio della formazione era garantito dall’autorità politica, nei famosi stati confessionali. Ecco che la professione pubblica della propria fede individuale, formata nel privato della propria coscienza, si conferma ancora come esercizio pubblico, politico addirittura.
Ma durerà poco. Gli stati confessionali non potevano reggere a lungo. I conflitti di religione dell’epoca moderna, che quegli stati contribuivano a portare avanti, necessitavano di un’altra soluzione che fu trovata nella elaborazione e affermazione dei diritti universali scaturiti dalla natura umana, dalla ragione, indipendentemente e a prescindere dalle appartenenze religiose. Perché questo potesse affermarsi bisognava agire “come se Dio non esistesse”. Ecco che non solo nella organizzazione giuridica degli stati liberali ma anche nella cultura più o meno diffusa la vita religiosa degli individui venne relegata nel privato, senza più nessuna cittadinanza nella vita pubblica. Un pezzo di storia millenaria della cultura politico-simbolica occidentale scompare dal dibattito pubblico. La religione nel privato, quindi, insieme alle relazioni familiari, al sesso, alle amicizie, ai gusti musicali, alle manifestazioni artistiche, etc.
Nel corso del XX secolo, però, l’impianto su cui reggeva la distinzione pubblico-privato crolla inesorabilmente. I mezzi di comunicazione di massa rendono, a poco a poco, gli aspetti della dimensione privata della vita spettacolo, elementi di comunicazione sociale. La partecipazione a concerti, il modo di vestire, le tendenze sessuali, la vita intima della famiglia, sono sempre più aspetti simbolico-comunicativi del proprio io e della propria identità sociale. Irrompono prepotentemente nella scena pubblica. L’avvento di internet, della logica a rete, della comunicazione 2.0 accelerano e amplificano il ruolo pubblico di qualsiasi cosa.
Anche le religioni, quindi. A mostrare la dimensione pubblica della religione sono state per prime le organizzazioni religiose non ancora occidentalizzate dal processo di globalizzazione, basti pensare alla nascita del Pakistan dopo la separazione tutta religioso-politica dall’India. Poi ad entrare prepotentemente dello spazio politico sono state le organizzazioni fondamentaliste, vedi la rivoluzione sciita in Iran, il consenso elettorale dei partiti ortodossi in Israele, la lotta politico-simbolica delle comunità cristiane anti-abortiste e creazioniste negli Stati Uniti. Potremmo aggiungere anche il ruolo delle comunità di base e della teologia della liberazione nel Nicaragua sandinista e in tutta l’America Latina.
A far emergere il ruolo sempre più pubblico e politico delle religioni non è necessario comunque richiamare i grandi avvenimenti internazionali che dall’11 settembre 2001 sono diventati anche eventi bellici. Basta osservare come l’approccio alla religione è cambiato negli ultimi decenni, è diventato sempre più “militarizzato”, sempre più simbolicamente riconoscibile, esposto pubblicamente. Penso alle giornate mondiali della gioventù in ambito cattolico, all’abbigliamento religiosamente ostentato del velo femminile e della barba maschile nell’islam, ai clergyman che i preti già nel periodo del seminario utilizzano come una divisa. Ostentazione dei simboli religiosi che hanno fatto tanto discutere nelle scuole francesi quando è stata vietata agli alunni.
Credo che non ci sia bisogno di fare ulteriori esempi. Il gesto di Silvia Romano, la sua conversione, l’indossare un abito tipico delle comunità musulmane fondamentaliste nelle quali è stata prigioniera per 18 mesi, non può essere considerato semplicemente un atto privato. Nel momento in cui è apparso in tv e i social media ne hanno diffuso le immagini e la notizia è diventato un argomento pubblico, la scelta religiosa di Silvia Romano è diventata una scelta di rilievo pubblico, politico-culturale. Ora si può discutere sul significato di quel gesto, se è positivo, se alimenta una discussione sul pluralismo religioso, sull’importanza della scelta religiosa nella costruzione dell’identità personale, oppure negativo, se esprime conflitto, una vittoria dei fondamentalisti, quello che vi pare. Certo che non può essere giudicato semplicemente un gesto privato.
2. Il secondo argomento è legato al rapporto conflittuale tra autorità e libertà di coscienza. Si è detto che quella di Silvia Romano non è una vera conversione perché condizionata dal contesto violento e psicologicamente dipendente della prigionia. È stata tirata in causa anche la sindrome di Stoccolma come motivazione alla conversione, richiamando la sudditanza psicologica della vittima sul carnefice. Altri hanno invece sottolineato l’aspetto traumatico del rapimento come condizione inopportuna per una scelta, come quella della conversione, che necessità di tranquillità e pace interiore. Noi non abbiamo possibilità di analizzare davvero fino in fondo quello che è successo a Silvia Romano né ci interessa farlo. Questa è davvero una questione tutta sua, privata, con la quale fare i conti, non nostra.
A noi interessa, invece, il risvolto politico-culturale. Soprattutto il luogo comune che vuole la libertà inversamente proporzionale all’esercizio dell’autorità. Che una persona possa essere davvero indipendente ad autonoma, al di là di ogni forma di condizionamento, è un’utopia o, meglio, uno dei miti dell’epoca moderna. Non esiste conversione religiosa senza l’esercizio di una qualche forma di autorità verso la quale acconsentire, dire sì incondizionato, prestare fiducia, consenso, fede. La richiesta del Corano da parte di Silvia, da come raccontano le cronache, è la richiesta di una autorità con la quale confrontarsi. Da soli non ci si converte da nessuna parte. La conversione è proprio il riconoscimento che qualcun altro è degno di fiducia, è così autorevole da potersi affidarsi completamente a lui. E non ho scritto “altro” e “lui” con la lettera maiuscola, perché non solo Dio (o chi per lui) è il referente dell’autorità ma soprattutto coloro che rappresentano Dio in quel momento davanti a te. Che i genitori scelgano la vita religiosa del figlio è la cosa più normale del mondo. La non validità del battesimo dei bambini è un dibattito tutto moderno. Pensate che molti dei popoli “barbari” sono stati convertiti al cristianesimo grazie alla conversione del loro sovrano, la persona più autorevole del popolo.
Attenzione, però, non tutte le forme di esercizio dell’autorità sono adeguate ad una conversione. Se l’autorità si trasforma in autoritarismo invece che in autorevolezza si chiude il gioco dell’autenticità della conversione. La storia delle religioni, soprattutto del cristianesimo, è piena di queste conversioni forzate che hanno dato luogo non a vere esperienze di fede ma a situazioni religiosamente paradossali oltre che umanamente tragiche. Penso alla conversione forzata delle popolazioni pre-colombiane dopo Colombo. Oppure la conversione per ricatto degli ebrei dopo la reconquista spagnola: in entrambi casi le forme di sincretismo e la cacciata dei “marrani” ne sono state le tristi conseguenze.
Garantire che l’autorità religiosa non si trasformi in autoritarismo e l’affermarsi del conseguente principio di laicità dello stato è stata una delle conquiste positive della modernità. Ma questo non significa che una vera conversione è tale solo se non si è pressati da forme di esercizio dell’autorità. Non so cosa sia successo a Silvia Romano nei suoi mesi di prigionia ma non si può escludere che lei abbia visto nei suoi rapitori e nella loro fede religiosa qualcosa di positivamente autorevole. Senza scadere nel banale vorrei invitarvi a vedere un paio di serie tv molto interessanti a questo proposito. Hatufim – Prisoners of war, serie tv israeliana del 2010 dove si narra del ritorno a casa di tre prigionieri di guerra uno dei quali torna convertito all’Islam con tutto quello che comporta la conversione all’islam in qual contesto. Poi Homeland, la versione americana della serie israeliana, dove anche in questo caso la conversione all’Islam di un prigioniero di guerra, nonostante le torture e le sevizie, non è un evento imposto dai rapitori ma frutto della propria esperienza esistenziale del periodo della prigionia fino addirittura ad appoggiare la causa dei suoi rapitori.
Il rapporto autorità e libertà di coscienza è molto più complesso di quello che può sembrare a prima vista e neanche la mancanza di tranquillità e di pace interiore può sminuire una conversione. Anzi. È proprio nei momenti di difficoltà, nei momenti forti della vita, quelli traumatici, che è possibile rimettere in discussione le proprie certezze, cercare nuove forme di senso, aprirsi al nuovo. La conversione religiosa non è la conclusione di una ricerca intellettuale, non è il risultato di uno studio, è la messa in gioco della propria vita verso forme più intense di senso. La conversione è esercizio di libertà in quanto con-senso dato ad un senso, però, forte e deciso la cui autorevolezza può essere messa in discussione solo da altra autorevolezza.
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