Nel settembre 2001 Paul Krugman coniò il termine “economia della paura”, analizzando le conseguenze economiche dell’attentato alle Torri gemelle di New York. In questi vent’anni la paura si è imposta come il fenomeno culturale più importante e pervasivo. Il terrorismo islamico ovviamente ha catalizzato molta di questa paura ma anche altri fenomeni hanno accompagnato il terrorismo nel propagare la paura: la crisi economica del 2008, il riscaldamento globale e la crisi ambientale, le migrazioni sempre più diffuse, la crisi della democrazia e della rappresentanza politica sempre più gravi, accompagnate dalle tradizionali paure delle catastrofi naturali, come uragani, alluvioni, terremoti, pandemie e chi più ne ha più ne metta.
La cosa curiosa, però, è che mentre la politica è stata sempre coinvolta nella risposta e nella gestione della paura l’economia raramente, mai in epoca moderna. La nascita degli Stati europei, ad esempio, coincide con la necessità della messa in sicurezza degli individui per quanto riguarda l’incolumità personale: nascono infatti dopo le guerre di religione del XVI secolo. Hobbes ne è il più alto ideologo. Lo Stato continuerà ad esercitare questa funzione di garante e gestore della sicurezza con il più recente Stato sociale e le politiche di welfare state. Ma l’economia no.
In epoca moderna l’economia ha svolto un ruolo propulsore, non di freno come la politica che ha nella protezione e sicurezza i propri obiettivi. L’economia moderna, cioè l’economia di mercato, è un’attività rischiosa, pericolosa. I protagonisti della vita economica moderna sono l’imprenditore e il capitalista, cioè coloro che iniziano un’attività economica con il rischio di perdere tutto quello che hanno investito. Un’attività pericolosa, quindi, affatto sicura che ha però la possibilità di aprire prospettive impensate. L’attività imprenditoriale dell’epoca moderna è la condizione prima dello sviluppo economico e sociale, del progresso civile ed umano.
La proprietà privata, che forse è la forma economica più vicina ad un sistema di sicurezza, anche se privato e non pubblico, non è possibile però pensarla come vera forma economica: la proprietà privata è un istituto giuridico e come tale è pienamente inserita nell’ambito politico e istituzionale. In economia la proprietà privata può essere al massimo concepita come “risparmio” e questo risparmio ha rilievo economico solo se non viene chiuso in un cassetto ma investito in qualche modo, cioè se diventa capitale. Ma l’investimento è di nuovo rischio e come tale non rientra tra le categorie di sicurezza e protezione, ma in quelle di sviluppo e progresso.
Politica ed economia hanno svolto in questi secoli ruoli opposti ma complementari. La sicurezza e la protezione offerta dalla politica statale hanno fatto da garanzia all’incertezza e rischiosità delle scelte economiche, le quali a loro volta hanno dato senso e prospettiva al potere statale sempre più presente nella vita dei cittadini.
Questo meccanismo apparentemente perfetto si è rotto da qualche decennio. Il sistema di welfare oggi è la parodia di sé stesso e le forme di protezione statale traballano. Ma c’è di più: il sistema politico statale, avendo perso buona parte dei propri poteri a vantaggio delle organizzazioni internazionali e globali, per garantire un futuro a sé stesso ha puntato sulle paure dei cittadini, cioè invece di organizzare forme di governo della paura che alimentino sicurezza e protezione, ha fatto di tutto per aumentare le paure dei cittadini, nella convinzione che questo porti a una richiesta di maggiore politica e potere statale. Alimentare, però, la domanda di qualcosa che si fa difficoltà ad offrire non fa altro che gonfiare una bolla speculativa che prima o poi scoppierà con ricadute imprevedibili su tutta la società.
Anche l’ambito economico, però, negli ultimi decenni ha cambiato decisamente di posizione e l’economia è diventata un elemento decisivo nell’affrontare la paura. L’economia non è più il motore propulsore della vita sociale. L’economia globale della grande finanza e delle multinazionali fa a meno della protezione statale, è vero, ma porta benefici a poche persone: non si può più parlare di crescita e progresso se ad avvantaggiarsi del sistema economico globalizzato è una ristretta élite di fortunati e il resto degli attori sono vittime inconsapevoli dell’arricchimento individuale di pochi. Le altre forme economiche nazionali sopravvivono a stento, cercando escamotage per non morire soffocate ma certo sono decisamente lontane dalle prospettive di crescita che il capitalismo eroico dei grandi imprenditori del passato ci ha insegnato.
L’economia della paura inizia proprio qui, non nel conteggio delle perdite economiche che le paure dei cittadini provocano. L’economia della paura è un sistema opposto all’economia del rischio, è una economia chiusa in sé stessa, che ha paura di perdere il poco o molto che ha, che cerca sicurezze nel possesso e lo chiude in una forma di avarizia che solo Arpagone o il vecchio Euclione riescono a rendere visibile. È l’economia della nostra epoca, una economia che non ha prospettive, senza sguardi verso il futuro, nata vecchia, il sigillo evidente della fine del sistema capitalista al cui capezzale stiamo tutti piangendo.
“Dacci oggi il nostro pare quotidiano e non abbandonarci alla tentazione”. Ecco come cambia il Padre Nostro. … Anzichè dire ‘non indurci in tentazione’ ecco il ‘non abbandonarci alla tentazione’.