Nel XXIII libro dell’Iliade, Omero racconta una storia forse poco conosciuta tra le tante che vengono raccontate nel poema: la corsa di carri da guerra trainati da due cavalli in onore di Patroclo, morto poco prima. Il racconto di questa corsa è particolarmente interessante perché mostra quanto il potere e la predestinazione alla vittoria contano nelle competizioni sportive, già nell’epoca classica.
Racconta Omero che a proporsi come concorrenti di questa corsa sono cinque guerrieri, presentati dal poeta in ordine di importanza per quanto riguarda la possibilità di vittoria. Il primo è un certo Eumelo, eccellente interprete dell’arte equestre. Poi il forte Diomede, con cavalli straordinari. Per terzo uno dei personaggi principali dell’opera omerica, Menelao, anche lui abile guidatore di carri con cavalli molto veloci. Però attenzione: mentre Eumelo e Diomede vengono presentati come i predestinati alla vittoria, Menelao è semplicemente un outsider, uno di quelli che potrebbe vincere solo se il fato o gli dei si dovessero mettere contro i primi due. Il terzo concorrente è il giovane Antiloco, figlio di Nestore, il ragazzo che portò ad Achille la notizia della morte di Patroclo. Antiloco viene presentato come un validissimo cavaliere, intelligente e arguto, ma purtroppo i sui cavalli non sembrano all’altezza degli altri tre concorrenti. Ultimo un certo Merione che non solo non aveva cavalli all’altezza ma non era abile alla guida come gli altri quattro.
Come previsto la corsa vide subito in testa i due predestinati, Eumelo e Diomede, che però si trovarono a correre contro le avversità degli dei: Eumelo ebbe un incidente al carro e ai cavalli e balzò, inevitabilmente all’ultimo posto, lasciando al solo Diomede la strada libera verso la vittoria. La cosa interessante, invece, è quello che accade tra Menelao e Antiloco. Antiloco, che era dietro Menelao, capì subito che per lui sarebbe stato impossibile superarlo con la sola forza dei cavalli e gli venne in mente uno stratagemma. Vista la presenza di una strettoia nella strada non molto distante dall’arrivo, scuote i suoi cavalli tanto da riuscire ad affiancare Menelao, e continuano appaiati fino alla strettoia. Qui Menelao si rivolge al giovane Antiloco chiedendogli di frenare e mettersi in coda perché in due non sarebbero passati. Ma il giovane Antiloco fa finta di non sentire costringendo Menelao a frenare lui il suo carro, mettersi in coda e ricorrere l’avversario per superarlo di nuovo, ma la meta è troppo vicina, il recupero non riesce in pieno e Antiloco si classifica secondo, avanti di pochissimo al carro di Menelao.
Al momento di ricevere il premio, c’è la resa dei conti. Achille vorrebbe dare il secondo premio ad Eumelo perché ha subito l’incidente ma Antiloco, ovviamente, si oppone: se Eumelo non ha pregato gli dei per evitare l’incidente non è colpa di Antiloco che invece merita il secondo premio. Ma è qui che insorge Menelao e denuncia pubblicamente Antiloco di aver imbrogliato, di non aver vinto con la forza dei cavalli e l’abilità nella guida ma solo con l’astuzia e l’imbriglio. Menelao invita Antiloco ad alzarsi in piedi e confessare pubblicamente la sua malefatta.
A noi questo sembra strano. Antiloco non ha assolutamente imbrogliato, è stato solo più furbo di Menelao, rischiando anche molto: se Menelao non avesse rallentato avrebbe fatto uno schianto fatale nella strettoia della strada. Antiloco, quindi si sarebbe dovuto opporre anche alle pretese di Menelao, rivendicando il suo secondo posto meritato con la corsa, senza imbrogli. Eppure entrano in gioco altri fattori, più importanti della semplice giustizia sportiva. Menelao non è uno qualunque, è il re di Sparta, il fratello di Agamennone, uno degli uomini più importanti e potenti della spedizione achea a Troia. Il giovane Antiloco, rinomato per la sua saggezza, capisce che opporsi a Menelao potrebbe rivelarsi fatale e acconsente alle sue pretese. Confessa davanti a tutti gli astanti la sua “furbata” e chiede perdono a Menelao dicendo di essersi affidato all’impeto della giovinezza invece di confidare nei giusti dettami della ragione. Menelao riconosce la pubblica confessione di Antiloco e lo perdona cedendogli per magnanimità il premio in palio per il secondo posto.
Avrete letto delle polemiche sorte dopo la vittoria di Marcell Jacobs alle Olimpiadi di Tokyo nella corsa dei 100 metri piani. La questione è sempre quella del doping, farmacologico e tecnico: l’atleta italiano avrebbe vinto imbrogliando, perché ha un amico che è stato in passato membro del suo team ed è accusato di traffico illecito di anabolizzanti e perché ha utilizzato delle scarpette diverse da tutti gli altri che con la pista super tecnologica dello stadio olimpico di Tokyo gli ha permesso la performance vincente.
Non entriamo, ovviamente, nel merito di queste accuse, la prima delle quali è molto lontana dall’essere associata all’atleta italiano e la seconda del tutto risibile. A noi interessa, invece, la questione politica legata a queste accuse, cioè la questione del potere, della forza delle parti in causa: può vincere una gara olimpica, soprattutto la più rappresentativa tra tutte le altre, quella che è il simbolo dell’olimpiade stessa, un signor nessuno, uno che non aveva mai prima di allora dimostrato di essere ai vertici dell’atletica mondiale, non dico vincente ma magari con piazzamenti importanti in gare internazionali negli anni precedenti l’olimpiade?
A noi, menti semplici impregnate di spirito romantico, sembrerebbe di sì. Eppure le cose non sono così semplici. Le gare olimpiche, e sportive in generale, non sono solo spassionato atletismo ma anche un gioco di potere: è politica, da sempre. Quando Pierre de Coubertin ideò e realizzò le prime olimpiadi moderne non lo fece come se fossero delle “rievocazioni storiche” dei giochi pan-ellenici dell’antica Grecia (dove per altro anche lì c’era molta politica) ma le realizzò nel tentativo di superare il più grave problema politico della sua epoca, quella a cavallo tra il XIX e il XX secolo: il nazionalismo. Organizzare competizioni sportive (quindi con regole ben precise, con arbitri imparziali, senza imbrogli di vario tipo) tra nazioni fu la risposta dello sport alle competizioni politiche, coloniali, economiche, militari, quindi violente e senza regole, che imperversavano tra le nazioni all’epoca e che sfociarono, purtroppo nella prima guerra mondiale.
Oggi non c’è più bisogno di competizioni tra nazioni. Le nazioni non esistono più. Sopravvivono gli stati ma svuotati di significato simbolico e con un sempre minore residuo di potere. In realtà le competizioni sportive tra nazioni (le olimpiadi, i campionati mondiali di calcio e altri sport di squadra) oggi paradossalmente hanno solo il compito di mantenere in vita l’dea di nazione, come una sorta di accanimento terapeutico, verso un soggetto politico che è ampiamente agonizzante. Basta vedere gli sportivi che hanno partecipato alle ultime olimpiadi, per tutte le nazioni: è stata l’apoteosi del multiculturalismo, del trans nazionalismo.
Quello che è successo a Jacobs, quindi, non è una questione di invidia nazionale: l’Inghilterra e gli Stati Uniti che rosicano verso l’Italia. Questo è quello che mandano i media, pane per il circo del popolo. La questione vera è economica. È lì che si insinua la vera questione del potere, la questione politica. Affinché un’atleta possa raggiungere un livello internazionale e veicolare premi per vincite, pubblicità, merchandising, cioè i soldi, c’è bisogno di un investimento enorme su di lui da parte delle società e delle federazioni sportive. Tutto nasce con la individuazione del talento, momento iniziale ma decisivo del percorso sportivo, che normalmente avviene da piccoli. Poi tutta la preparazione successiva con crescite atletiche costanti compiute grazie al lavoro incessante di allenatori, preparatori atletici, fisioterapisti, etc. Prima di vincere la gara più importante della vita, la gara olimpionica, normalmente un atleta è già ai vertici mondiali della sua disciplina da qualche anno e da lui e da pochi altri ci si aspetta che vincerà la gara olimpionica. Tutti gli altri non sono previsti, non sono i predestinati, potranno ambire a correre la finale, e per loro è già un traguardo, ma vincere mai. Se qualcuno dei non predestinati dovesse vincere avrà vinto sicuramente con l’imbroglio. Non c’è altra spiegazione. E deve confessare l’imbroglio, e restituire il premio al legittimo proprietario, il predestinato.
Marcell Jacobs è l’Antiloco di turno, che si è permesso di vincere contro i più forti, i predestinati, quelli che sono stati all’ombra di Usain Bolt per anni e che ora, senza il grande campione, hanno il diritto alla vittoria. Se Jacobs non si è accontentato di correre nella finale, che già per lui era un successo, e si è permesso di disturbare quanto è stato costruito per anni deve aver barato. Che lo ammetta pubblicamente: altrimenti?
Per fortuna oggi non abbiamo (ancora) almeno nell’atletica leggera, dei potentati economici così forti da impedire realmente, come Menelao, a Marcell Jacobs di difendere la sua vittoria. In altri sport, soprattutto di squadra sarebbe diverso. Ma questa storia dimostra quanto, ancora oggi, sport e potere siano molto più intrecciati di quanto si possa immaginare.
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