A volte i racconti mitici dei popoli antichi ci stupiscono. Sembrano storie così lontane, così poco adatte a rappresentare il mondo iper-tecnologico di oggi che rimangono storie per pochi appassionati o, al massimo, storielle per bambini. Poi, però, ti fermi ad ascoltarli meglio e ti accorgi che a distanza di millenni ancora riescono a dire cose forse semplici, essenziali, ma non per questo poco significative per gli uomini di oggi.
L’alluvione che ha colpito nei giorni scorsi parte dell’Emilia e della Romagna, le foto diffuse dai mass media che hanno circolato anche nei social, mi hanno fatto tornare in mente il mito biblico del diluvio universale. Quello dell’arca di Noè, per capirci. Uno di quei miti conosciutissimi da tutti, che si raccontano ai bambini già in tenera età. Ebbene mi sono accorto che in pochissimi, per non dire nessuno, conoscono l’inizio e la fine di questo racconto. Tutti sanno la parte centrale, quella della costruzione dell’arca, dell’entrata delle coppie degli animali, del diluvio, dell’abbassamento delle acque, e l’uscita degli animali dall’arca per ripopolare la terra. Ma la storia non termina lì né tantomeno inizia così. Secondo me sono proprio l’inizio e la fine ad essere interessanti come chiavi di lettura delle alluvioni dei nostri giorni.
Innanzi tutto, i racconti mitici del diluvio, e ce ne sono stati molti in giro per il mondo, hanno tutti come presupposto comune la paura in una imminente fine del mondo. A volte capita che nella storia culturale di un popolo ci si senta così allarmati per dei cambiamenti che apparentemente sprofondano l’umanità in un baratro senza fine che è necessario avere delle sicurezze consolatorie. È sufficiente una crisi economica, un’instabilità politica, pandemie inarrestabili, qualche guerra in corso dal risultato incerto. Se a questo si aggiunge una serie di cambiamenti climatici che devastano l’ambiente portando terremoti, eruzioni vulcaniche, inondazioni di pianure che ritornano paludose, ecco che si avverte la paura reale della fine del mondo, almeno come noi lo conosciamo (and i feel fine, aggiungevano ottimisticamente i R.E.M. qualche anno fa). Non credo che sia molto difficile, oggi, immaginare uno scenario del genere.
Il racconto biblico del diluvio universale inizia con Dio perplesso sulla creazione che aveva da poco terminato. Si accorge che gli esseri umani non si comportano esattamente come aveva sperato si comportassero. C’è violenza dappertutto, hanno imboccato la via del male. E così si pente di aver creato l’uomo e decide di sbarazzarsi di lui e di tutto quello che aveva creato sulla terra. Terra non intesa come pianeta (del quale chi scrive non aveva neanche vagamente idea) ma come suolo calpestabile, la terra ferma.
Quello che viene descritto in questa parte iniziale del mito è una contro-creazione. Chi ha letto e conosce il famosissimo racconto della creazione del cielo e della terra in sei giorni, scritto nel primo capitolo di Genesi dagli stessi autori “sacerdotali” del racconto del diluvio, ricorderà che Dio mentre crea guarda quello che fa e vede che era una cosa molto buona, una cosa molto bella. Adesso, invece, guarda quello che ha fatto, e vede che è una cosa molto cattiva, molto brutta. Ma che avranno mai fatto questi uomini per far arrabbiare così tanto il loro creatore?
C’è una parola che utilizza il redattore del racconto del diluvio per descrivere le malefatte degli uomini ed è la parola ebraica “hamas”, che non ha nulla a che vedere con il noto gruppo armato palestinese, sia chiaro. Hamas è spessissimo tradotto con “violenza”, tutte le traduzioni italiane che ho potuto consultare del racconto del diluvio utilizzano il termine violenza. Ma hamas ha un campo semantico un po’ più largo di quello di una semplice colluttazione fisica, come il termine violenza in italiano porta ad indicare. Hamas in ebraico antico significa anche un’azione che rompe quanto era stabilito, che sfascia un accordo, un’alleanza, soprattutto verso Dio, un’azione peccaminosa quindi. Che tipo di accordo, però, era stato stabilito tra Dio e gli uomini al momento della creazione?
Questo è facile. Basta andare al capitolo primo, leggere la creazione degli animali e dell’uomo e della donna, e scoprire che Dio ha stabilito un compito per tutti gli esseri viventi. Agli animali ha dato il compito di essere fecondi, di moltiplicarsi e abitare la terra. Agli esseri umani, invece, qualcosa di diverso. Anche loro devono moltiplicarsi e abitare la terra ma Dio ha dato loro anche un altro compito, molto più impegnativo. Il compito ulteriore è quello di “kabash” la terra e di “radah” gli altri esseri viventi. Questi vocaboli normalmente vengono tradotti con “soggiogare” e “dominare”: soggiogare la terra e dominare gli animali. Letto in italiano questo compito dà l’idea di onnipotenza: gli esseri umani sembrano i tiranni del mondo, dispotici oppressori del cielo e della terra e di ciò che vi abita. In realtà non è così. Kabash e radah sono termini che indicano l’attività di un re, sono compiti regali. Kabash indica la sovranità su un territorio e radah il governo degli abitanti di quel territorio. Bisogna ricordare che nella cultura ebraica antica i re non esercitavano una sovranità assoluta, non erano sciolti da vincoli, non potevano fare tutto quello che volevano. La loro azione regale era rivolta, o avrebbe dovuto essere rivolta, alla giustizia, al bene dei sudditi, alla promozione della vita contro la cultura di morte. Utilizzare questi termini per il compito che Dio ha affidato agli esseri umani nel momento della creazione fa degli esseri umani i sovrani del mondo, ma sovrani che hanno una responsabilità, quella di prendersi cura della terra e di chi ci abita. È per questo che Dio li ha fatti a sua immagine e somiglianza.
Se ritorniamo al racconto del diluvio, la violenza espressa dagli uomini che ha portato Dio a ripensare la bontà della creazione, è la violenza che ha rotto il patto con il loro creatore: gli uomini non si sono presi cura della terra, hanno pensato soltanto a sfruttarla per i propri interessi momentanei, costruendo ovunque, spianando colline, tagliando alberi, riempiendola d’immondizia, abbandonandola a sé stessa quando non immediatamente utile. Gli uomini sono stati i peggiori sovrani possibili. È per questo che il creatore ha rimesso mano alla sua creazione, ricominciando da capo una nuova creazione. E un nuovo patto.
Il racconto biblico del diluvio universale non termina con l’uscita degli animali dall’arca. Termina con la nuova alleanza, il nuovo patto che Dio formula con la nuova umanità ancora da costruire, sotto forma di una promessa perentoria: «non distruggerò mai più tutti gli esseri viventi come ho fatto questa volta. Finché durerà il mondo, semina e mietitura, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno mai». La finalità consolatoria sulla possibile fine del mondo è scritta, ma attenzione. Questo non vuol dire che tutto filerà liscio, senza intoppi. Anzi. I figli di Noè, nonostante Noè fosse un uomo giusto e senza difetti che si comporta come piace a Dio, non assomigliavano al padre: non si capisce bene se il peggiore fosse Cam, che ha deriso il padre nudo ed ubriaco, o i fratelli Sem e Iafet che senza pietà hanno denunciato il fratello facendogli subire la maledizione. Fatto sta che Dio è consapevole che l’uomo «fin dalla sua giovinezza ha in cuor suo solo inclinazioni malvagie» e, nonostante l’arcobaleno ricorderà a Dio di non distruggere la terra con in diluvio come aveva promesso, le alluvioni continueranno a imperversare se gli uomini proseguiranno ad essere i pessimi sovrani della terra, come sempre.
Grazieeee. Ottimo commento!