Il caso Lintner, cioè il mancato nulla osta da parte delle autorità vaticane alla presidenza del prof. Martin Lintner allo Studio teologico accademico di Bressanone, ha acceso delle interessanti discussioni tra i teologi italiani. Una di queste riguarda l’utilizzo del potere nella Chiesa e il ruolo che svolge il Diritto canonico nell’organizzare questo potere.
Andrea Grillo, nelle colonne del suo blog “Come se non”, nota una regressione del Codice di Diritto Canonico del 1983, quello in vigore, rispetto a quello del 1917. Nel vecchio codice si diceva che al teologo «non basta evitare l’eresia, ma bisogna fuggire gli errori che vi accedono ed osservare le disposizioni, con le quali la S. Sede proscrive e proibisce le cattive opinioni» (canone 1324). Per quanto vincolante possa essere quanto scritto nel canone esso esprime comunque un divieto, “fuggire gli errori”, esprime una norma negativa. Il Codice attualmente in vigore, invece, afferma che «non proprio un assenso di fede, ma un religioso ossequio dell’intelletto e della volontà deve essere prestato alla dottrina, che sia il Sommo Pontefice sia il Collegio dei Vescovi enunciano circa la fede e i costumi, esercitando il magistero autentico, anche se non intendono proclamarla con atto definitivo; i fedeli perciò procurino di evitare quello che con essa non concorda» (canone 752). Capite che qui, invece, la disposizione normativa è positiva, il “legislatore” chiede che non solo si evitino gli errori ma chiede quasi “un assenso di fede”, un “religioso ossequio dell’intelletto e della volontà” non al Vangelo, come dovrebbe essere, ma alla dottrina del Sommo Pontefice e del collegio dei Vescovi. Se nel Codice del 1917 in teoria era possibile uno spazio abitato dal teologo tra l’errore e le disposizioni del magistero, nel Codice del 1983 questo si è perso e la teologia viene rappresentata come lo zerbino del magistero.
Per fortuna non sempre queste norme sono state rispettate. Anche se troppe volte. Il canone del 1983 risente del clima culturale normalizzatore che il magistero ha rivolto verso la teologia, a parere di qualcuno esplosa in maniera anarchica dopo il Concilio Vaticano II. Questo clima ha dato luogo a scontri importanti tra teologi e la Congregazione per la dottrina della fede tra la fine degli anni ’80 e i primi anni del ’90. Ma oggi sembrava tutto superato, almeno fino a Lintner. È per questo che Grillo chiede una riforma del canone 752.
Io non credo sia sufficiente la riforma di un canone, per quanto importante, del Codice di Diritto Canonico. Quello che va messo in discussione è la possibilità stessa che la legge, qualsiasi legge, possa regolamentare uno stile di vita, un modo di essere, nel nostro caso specifico, la forma di vita cristiana. Lo aveva capito già Francesco d’Assisi ottocento anni fa quando resistette, finché poté, alla stesura di una regola. Per il santo di Assisi era sufficiente il Vangelo. Una legge non può dire che significa essere cristiani, essere uomini e donne di fede.
Ad esempio, curioso è il modo con cui la Cei misura la fede cristiana degli insegnanti di religione. Con la Delibera n. 41 del 1986 e poi leggermente modificata nel 1990, la Conferenza episcopale italiana ha deciso di utilizzare i canoni 804 e 805 del Codice di Diritto Canonico per rilasciare, e togliere, l’idoneità all’insegnamento. Tra le caratteristiche che questi canoni pongono all’insegnante c’è quello della “testimonianza di vita cristiana”. Ma come si misura la vita cristiana? Vista l’impossibilità di stabilire un criterio di misura, la Delibera 41 prescrive il minimo indispensabile di vita cristiana che un insegnante deve mostrare, e cioè «comportamenti pubblici e notori non in contrasto con la morale cattolica». Decisamente molto lontano da un ideale di vita cristiana.
E non è soltanto una questione di critica alla novità negative che il Codice ha portato nella Chiesa cattolica dal secolo scorso. Queste sono indiscutibili. Prima del Codice, il Diritto canonico era semplicemente un insieme di norme sedimentate nei secoli, il Corpus Iuris Canonici, che il giudice interpretava e applicava liberamente a seconda del caso. Il potere di giuristi e dei giudici faceva del Diritto canonico un mondo di arbìtri e privilegi. Ma qualche giudice illuminato che interpretava le norme da applicare alla luce del Vangelo poteva anche trovarsi. Con l’introduzione del Codice nel 1917 si mise definitivamente ordine e semplicità nel rapporto giuridico tra i soggetti ecclesiali ma si rese rigido e bloccato questo rapporto proprio dalle norme del Codice.
La Chiesa cattolica con l’introduzione del Codice è passata dal potere imperiale, espresso dal Corpus Iuris Canonici di derivazione romana, a un nuovo tipo di potere, quello di moda dall’epoca moderna, cioè il potere pubblico statale. La Chiesa con il Codice presenta sé stessa al mondo come uno Stato, parallelo agli altri stati. Gli Stati moderni, nell’esercizio del loro potere, impongono un diritto positivo ai loro cittadini, e se non viene rispettato applica un procedimento giurisdizionale. La Chiesa agisce allo stesso modo. A differenza degli Stati nazionali, però, che hanno nel tempo modificato la legittimità del loro potere passando da regimi assolutistici a quelli democratici, la Chiesa, Stato senza nazione, non ha percorso la stessa strada. L’annuncio del Vangelo e la costruzione del Regno di Dio, che è l’unica legittimazione all’esercizio del potere nella Chiesa, sono sempre più distanti dall’esercizio concreto del potere nella Chiesa di oggi.
Non è sufficiente un semplice ritorno all’epoca precedente l’introduzione del Codice. Anche allora, i vertici della gerarchia ecclesiale, pur se in modo diverso, esprimevano un potere nei confronti dell’intero popolo di Dio. Teoricamente per poter annunciare il Vangelo e costruire il Regno di Dio, la Chiesa non dovrebbe proporre nessun tipo di potere. Sarebbe contraddittorio davanti ad un essere onnipotente che proclama la salvezza dell’umanità su una croce in quanto crocifisso o incarna la sua presenza nel mondo nel grembo di una donna, piccolo e indifeso. Dico teoricamente perché praticamente l’organizzazione della comunità ecclesiale ha bisogno di strutture, di relazioni, di comportamenti regolamentati, in qualche modo. Forse alla fine dei tempi potremmo fare a meno della legge e del potere ma nel percorso storico del cristianesimo no. E allora quello che va cercato è un modo alternativo al Codice e al Corpus di pensare e vivere la legge.
Un po’ di frequentazione biblica mi ha fatto ricordare che la tradizione ebraica antica, e anche quella moderna (c’è molto da imparare dai nostri fratelli ebrei), pone la legge in un modo decisamente diverso dal diritto romano o da quello statale moderno. E non si tratta di una semplice legge, ma della Legge, quella che Dio ha dato a Mosè. Accanto a un corpus giuridico tradizionale, fatto di obblighi e divieti, come il Codice dell’Alleanza o i dieci comandamenti tanto per capirci, la Legge ebraica è formata da racconti e narrazioni di storie (i miti fondativi di Genesi 1-11; le leggende dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe e Giuseppe e i suoi fratelli; la storia della schiavitù in Egitto e della liberazione; la narrazione dei quarant’anni nel deserto). Queste storie non sono accessorie o marginali, sono parte integrante della Legge ebraica, che è composta di un tutto completo, Codici e narrazioni. È riduttivo e fuorviante, infatti, chiamare questi testi “Legge”. Gli ebrei la chiamano Torah, insegnamento, in una visione decisamente più olistica di quella legalista tipica del diritto romano imperiale.
Le storie narrate in quei libri sono il modo più efficace di presentare la forma di vita di fede. Le rigide norme fatte di obblighi e divieti sarebbero inadatte da sole a rappresentare davvero la vita di fede. Allora la mia proposta, per quanto modesta, è questa: ad una halakhah normativa, essenziale, ristretta al minimo indispensabile, quanto necessario ad organizzare la vita della Chiesa, vanno affiancati i vangeli canonici come haggadah, come legge narrativa da porre come chiave interpretativa, come richiamo di senso, alle norme tradizionali fatte di obblighi e divieti. Sta poi alla sensibilità di chi deve applicare o vivere quella legge leggerla alla luce del vangelo. Credo che anche san Francesco, ad ottocento anni di distanza, potrà dirsi soddisfatto di questa soluzione.
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