Caro Francesco Piccolo,
ho letto il tuo articolo su la Repubblica del 21 novembre “Non esistono i maschi progressisti” e non sono assolutamente d’accordo con te, e non perché ci tenga ad essere progressista (se c’è una categoria culturale che ho sempre ritenuto negativa per l’umanità è quella di progresso). Capisco le tue intenzioni, che apparentemente possono sembrare anche condivisibili (ma solo apparentemente), cioè l’assunzione di una responsabilità collettiva da parte dei maschi per la loro violenza sulle donne. Hai scritto che «quanto più al maschio verranno sottratte arroganza e supremazia, sicurezza e predominio, tanto più si sentirà fragile; e quanto più si sentirà fragile, tanto più combatterà disperatamente. La fragilità ci rende spaventosi, noi maschi; tanto quanto ci rende spaventosi la violenza; soltanto nei maschi queste due caratteristiche sono legate».
Quello che non condivido della tua analisi e che credo quella sì essere una vera violenza su tutti, maschi e femmine, è ridurre la questione in categorie semplici, maschi e femmine appunto. Noi maschi, voi femmine. Già l’utilizzo di “maschio” e “femmina”, categorie di matrice sessuale (anche tra i cani e i gatti alcuni sono maschi e alcune femmine), invece di “uomo” e “donna”, categorie culturali decisamente più adatte a rappresentare quello che descrivi, denota una semplificazione eccessiva nel tuo linguaggio (e quindi nel tuo pensiero) che distorce la comprensione del fenomeno. Ci sono voluti decenni affinché l’identità di genere e l’orientamento sessuale si affrancassero dalle categorie semplici (e violente) e potessero esprimere finalmente quella varietà e complessità, anche evolutiva, che la realtà presenta quotidianamente. È arrivato il momento che anche il cosiddetto “ruolo di genere” si affranchi dalla violenza delle rappresentazioni semplicistiche e dualiste.
Nel tuo pressappochismo di genere hai scritto che noi “maschi” «siamo stati almeno una volta (e anche di più) nella vita quello che urlava sopra, che non faceva parlare, che doveva parlare prima lui; quello che spiegava come bisogna comportarsi, o come fare una cosa, o addirittura come bisogna vivere; quello che ha cercato di imporre il suo ruolo, quello che si è incazzato di più perché sapeva di avere torto; quello che non ha accettato che si amasse un altro uomo (non ha accettato è poco). Quello che si ricorda che aveva ragione anche due mesi dopo, e chiama, e dice: hai visto che avevo ragione? Quello che quando parla a una riunione si rivolge agli altri uomini. Quello che si dimentica come si chiama la collega. Quello che manda messaggi ambigui per tutta la vita. Quello che sul treno si sente in dovere di rivolgere la parola a una donna che siede di fronte solo perché è carina, e non riuscirebbe a tornare a casa senza averlo fatto. Quello che si appropria delle idee delle altre, disinvoltamente. Eccetera, eccetera, eccetera». Ma non è vero. Non puoi prendere degli stereotipi di genere e identificarci tutti in quanto “maschi”. Che vuol dire che “almeno una volta” abbiamo fatto quelle cose? È questo che ci identifica come “maschi”? E tutte le altre volte che abbiamo fatto il contrario? E tutte le volte che quelle cose che hai scritto le hanno fatte le “femmine”? Oppure pensi che le donne, in quanto femmine, non facciano quelle cose? Ma per favore.
Secondo me è proprio la permanenza di questi stereotipi di genere nel nostro pensiero, nel nostro discorrere quotidiano, che crea e alimenta le violenze, in quanto essi stessi sono già violenza. Io voglio essere giudicato per quello di giusto o di sbagliato che faccio in quanto persona, se volete individuo, non in quanto uomo, né tantomeno maschio. E frequentando donne da più di cinquant’anni, credo di non sbagliare troppo dicendo che anche loro vogliono essere giudicate nella loro individualità e non perché appartengono a chissà quale categoria.
P.S. del 22 novembre:
Dopo la pubblicazione della lettera aperta a Francesco Piccolo mi sono arrivati molti messaggi, alcuni dei quali mi hanno fatto notare che le cose non stanno esattamente come le ho descritte io. Ad esempio, nel rapporto violento che alcuni uomini hanno nei confronti delle donne non si può prendere a giudizio solo l’azione del singolo perché all’origine di quell’azione c’è tutta la cultura maschilista e patriarcale che lo ha formato e giustificato. Una cultura maschilista e patriarcale che ogni uomo, in quanto uomo, ne è portatore, sano o malato che sia, e con la quale deve fare i conti.
Vero, ma fino ad un certo punto. Che la provenienza storica e a volte anche sociologica condizioni le scelte di molte azioni degli esseri umani è fuori di dubbio. Io non credo però ad un determinismo storico o sociologico, cioè alla impossibilità di affrancarsi dalle proprie provenienze storiche e dalle proprie condizioni sociali. E non vale soltanto per le questioni di genere. Pensate al giudizio di delinquenza dato agli stranieri, soprattutto clandestini. Non ci vuole un grande studio di sociologia per capire che un giovane, che lascia la sua famiglia, i parenti, gli amici di sempre per andare a vivere in un altro paese, dove non lo conosce nessuno, nel quale è entrato fuori dalla legge e nel quale i vincoli morali e valoriali non sono così stringenti com’erano nella sua terra di origine, questo giovane si senta libero di fare scelte morali e comportamentali fuori dalla legge. Ma questo è sufficiente per rendere tutti i clandestini o, peggio, tutti gli stranieri dei delinquenti? Certo che no. Anche se tutti loro sono stati “almeno una volta”, come dice Piccolo, tentati di prendere scorciatoie illegali per iniziare una vita decente nel nuovo paese, se non lo hanno fatto, se non sono caduti nella trappola della tentazione, non possono essere associati agli altri soltanto perché sono accomunati dalla medesima provenienza sociale.
Io provengo culturalmente ed educativamente dal più tradizionale maschilismo italiano. Sono cresciuto in una casa con una madre e una nonna che mi hanno debitamente allontanato da qualsiasi faccenda domestica. Mio padre tornava da lavoro, si sedeva a tavola e trovava tutto pronto, mangiava e si alzava senza mai aver sparecchiato la tavola o lavato due piatti in tutta la sua vita, per non parlare di tutte le altre attività domestiche, e prendeva decisioni economico-finanziarie o di grandi acquisti, senza consultare mai nessuno in famiglia. Eppure, oggi, e da trent’anni almeno, il mio rapporto con i compiti familiari e con i membri della mia famiglia è radicalmente diverso ed opposto. E dovrei sentirmi solidale con i miei coetanei che invece non sono riusciti ad affrancarsi da quel mondo, soltanto perché abbiamo una provenienza culturale simile? Ma neanche per idea. Voglio essere giudicato per le scelte che ho fatto, non certo per quelle che avrei dovuto fare considerata la mia provenienza culturale.
Sono anche assolutamente convinto, poi, che ognuno debba dare un contributo all’educazione delle nuove generazioni, che a quanto pare ancora sono pervase da maschilismi primordiali che vanno assolutamente superati. Ognuno nel proprio ambito, e in particolare quelli che lavorano in istituzioni esplicitamente educative. L’obiettivo è quello di dire che un altro mondo è possibile, e l’altro mondo è migliore di quello che vivono. Per fare questo, però, non si possono utilizzare le categorie semplici del “maschio” e della “femmina”. Come ho detto nella lettera a Piccolo, sono queste categorie ad essere violente e anti educative. Sono quelle categorie che sin da piccoli portano i maschietti a giocare con le macchinine e le femminucce con le bambole, i maschi ad avere la cameretta blu e le femmine rosa, eccetera eccetera. Sono categorie etichette che frenano il cambiamento, invece di promuoverlo.
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