Mi sono sempre chiesto come mai esistono competizioni sportive tra nazioni, come nelle olimpiadi, ad esempio, e se è giusto che ci siano in un contesto globalizzato il cui unico ruolo svolto dalle nazioni sembra essere quello di fare le guerre. Potrà sembrerà una domanda oziosa, visto che nello sport le competizioni tra nazioni sembra la cosa più normale e più ovvia del mondo. E invece non è oziosa, considerato il fatto che le competizioni tra nazioni, nello sport, non ci sono sempre state. Del resto, sono le nazioni a non esserci sempre state. Come non ci sono sempre stati gli Stati, a cui le nazioni, spesso, si sovrappongono.
L’idea di far fare competizioni sportive ad atleti selezionati per nazioni non è di Pierre de Coubertin, ideatore e primo organizzatore delle olimpiadi moderne. Pare che la prima competizione sportiva tra nazionali sia stata la Coppa del Mondo di Cricket del 1844 tra Canada e Stati Uniti, organizzata dal Marylebone Cricket Club, seguita dal primo incontro internazionale di calcio tra Inghilterra e Scozia nel 1872, organizzato dal grande Charles W. Alcock, segretario della Football Association. Partita di calcio terminata con la sconfitta della Scozia che però, inaugurando una prassi che si consoliderà nei decenni seguenti, protestò per gli imbrogli della selezione inglese.
Pierre de Coubertin prese in prestito l’idea delle competizioni sportive nazionali per farne un programma politico-ideologico ambizioso. Le sue olimpiadi non dovevano essere semplicemente delle “rievocazioni storiche” dell’antica Grecia ma essere significative per il mondo contemporaneo, almeno quello dei suoi tempi. Bisogna ricordare che nel corso del XIX secolo lo sport, sia in Europa che negli Stati Uniti, acquista importanza come attività educativa, perché lo sport forma alla disciplina, al rispetto delle regole, al senso di appartenenza ad un gruppo e anche come espressione del progresso verso nuovi traguardi. Se lo sport è educazione, dice de Coubertin, allora può contribuire ad insegnare ai governi degli stati a non utilizzare il nazionalismo per competizioni distruttive, come le guerre, ma, invece, all’incontro dei popoli e all’amicizia internazionale.
Una lettura superficiale degli avvenimenti vuole che la Prima guerra mondiale, la Grande guerra tra nazioni, sia stata la sconfitta dell’utopia coubertiniana. Sconfitto perché gli Stati non hanno accolto i suoi obiettivi pacifisti e cosmopoliti. E in parte è vero. Ma ad una lettura più attenta ci si accorge che l’errore è stato molto più grave di quanto potesse pensare lo stesso de Coubertin. Egli non è stato semplicemente inascoltato ma ha contribuito, in una forma esemplare di eterogenesi dei fini, ad alimentare la conflittualità tra le nazioni. Non dico che le sue olimpiadi abbiano causato la Prima guerra mondiale, perché non è vero, ma hanno alimentato l’aggregazione nazionale sotto lo spirito competitivo dello sport. Non hanno affatto educato al dialogo e al rispetto reciproco. “L’importante è partecipare”, il famoso slogan olimpico di de Coubertin, se a volte è stato apprezzato dagli atleti (non all’altezza della vittoria), non è stato mai amato dai tifosi, cioè dai connazionali, per i quali l’importante è stato sempre vincere ed affermarsi sulle altre nazioni.
Nel XX secolo c’è stata l’apoteosi delle competizioni nazionali. Ogni sport ha organizzato la sua “nazionale” e campionati tra nazionali. Anche quando oramai era chiaro che la storia andasse molto al di là delle semplici aggregazioni nazionali: dai blocchi politici transnazionali durante la guerra fredda, sovietico ed atlantico, alla formazione dell’Unione europea, dal panarabismo ai processi di decolonizzazione, tutto lasciava presagire il superamento dell’idea di nazione. Anche le grandi rivoluzioni nel mondo dei trasporti e delle comunicazioni hanno imposto un modo globale di leggere e vivere il pianeta terra: gli aerei e internet se ne fregano altamente dei confini nazionali.
In un contesto del genere le competizioni tra nazionali si sono, piano piano e sempre di più, trasformate in business. Pensate alla “campagna acquisti” che alcune nazionali fanno tra gli atleti bravi che hanno vaghe origini o legami con la nazione in cui dovrebbero giocare. Emblematico è il caso della nazionale di pallacanestro italiana che ha cercato di ingaggiare, a suon di dollari, Paolo Banchero, atleta statunitense con il nome vagamente italiano. Oppure quegli atleti emigrati che devono decidere in quale nazionale conviene giocare, quella della nazione di origine o quella della nazione attuale.
Oggi l’unica cosa che alimenta identità nazionale è lo sport e le sue competizioni tra nazioni. Se non ci fosse lo sport non avremmo mai occasione di sentirci italiani, francesi, spagnoli, tedeschi, ecc. Avrebbero, di conseguenza, molta più difficoltà a diffondersi gli slogan populisti alimentati dalla paura e gli slogan razzisti, che oggi imperversano guarda caso negli stadi.
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