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La guerra è bella, anche se fa male

Io sono cresciuto negli anni ’80 del XX secolo. Ci ho passato adolescenza e parte della giovinezza. Gli anni ’80 sono stati, tra l’altro, gli anni delle lotte politiche, delle manifestazioni pubbliche, a favore della pace e contro la guerra, che si prospettava essere una guerra termonucleare globale. Film come War Games o The day after, personaggi come don Tonino Bello, Ernesto Balducci, eventi come la preghiera per la pace di Assisi hanno popolato le mie serate e le mie letture di quegli anni. La guerra sembrava la cosa più atroce ed assurda del mondo, la pace l’unica prospettiva possibile.

Eppure, da allora, la guerra ha cominciato ad essere un elemento sempre più ambiguo, complesso, contraddittorio, nella mia esperienza personale e culturale. Prima di tutto visitando i Balcani nella metà degli anni ’90, i luoghi di una guerra appena terminata, luoghi di distruzione architettonica, naturale e soprattutto umana impressionante che andavano a confermare il mio giudizio profondamente negativo sulla guerra, ma anche luoghi abitati da gente fieramente orgogliosa della guerra combattuta che apriva a loro l’opportunità di costruirsi una nuova storia, un nuovo futuro. Esperienza profondamente contraddittoria.

Poi, dagli studi che in quegli anni mi impegnavano assiduamente, mi hanno presentato un altro aspetto contraddittorio della guerra, cioè il suo rapporto con la religione. Tra le “esperienze del sacro” più rilevanti nella storia delle religioni ho scoperto che la guerra occupa un ruolo di primo piano. La guerra è un momento della storia personale e della storia di un popolo assolutamente straordinario, eccezionale, un momento nel quale la paura di perdere la propria vita e il fascino della lotta per la vittoria rendono la guerra un contraddittorio mistero al contempo tremendo e affascinante, esattamente come il sacro. Nella guerra ogni singolo soldato mette in gioco la propria vita, decide il senso della propria esistenza, se vale la pena vivere chiuso nella propria banale e insignificante routine quotidiana, oppure buttarsi a capofitto nel turbinio delle emozioni adrenaliniche che solo la lotta in battaglia sa dare.

E questo non vale solo per il singolo soldato, vale per l’intero popolo coinvolto. In questo senso entra in gioco un altro elemento fondamentale della storia delle religioni, il sacrificio. La morte di pochi per la vita di tutti. Donare la propria vita per il bene del popolo, per le generazioni successive, viene celebrato in ogni guerra come un sacrificio necessario. Le vittime verranno celebrate in feste apposite, con la lettura nella pubblica piazza dei nomi dei caduti, le famiglie verranno consolate e ringraziate per il dono fatto al popolo intero. Grazie al loro sacrificio è stato possibile ricostruire un nuovo tessuto sociale, percorrere una strada nuova e migliore per le generazioni future. Il loro sacrificio sarà stato positivo anche quando, grazie alla loro lotta, si è scoperto che il motivo del contendere era sbagliato, che la guerra combattuta avrebbe portato il popolo verso la distruzione: il loro sacrificio ha costruito una nuova consapevolezza, ha portato ad un nuovo impegno per migliori obiettivi.

René Girard aveva capito tutto. Le nostre società si basano su un omicidio, trasformato in omicidio rituale e mitico. Un sacrificio da capro espiatorio che deve essere periodicamente rinnovato. Diceva Girard che la morte di Gesù in croce si pone come un superamento del processo vittimario, ma il cristianesimo, almeno fin ora, non è stato all’altezza del compito. Ha alimentato il processo vittimario, invece che fermarlo. Non ci resta che aspettare la momentanea fine dei tempi violenti, nella consapevolezza che il treno non fa più fermate, neanche per pisciare, e si va dritti a casa senza più pensare che la guerra è bella, anche se fa male.

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