Quello che vi propongo di seguito è la relazione che ho tenuto venerdì 3 settembre agli insegnanti di religione della diocesi di Fermo. Una questione “antepolitica” molto più importante di quanto sembri a prima vista:
“Oggi vorrei parlarvi dell’insegnamento della religione cattolica (IRC) come professione morale. Non nel senso che l’IRC ha delle caratteristiche, delle qualità etiche e morali migliori di altri insegnamenti. No. È semplicemente inteso nel senso che ogni insegnante, in quanto insegnante, svolge una professione morale. Tutti gli insegnanti, quindi.
Anche l’insegnante di religione (IdR), allora, svolge una professione morale, in quanto insegnante. L’insegnante di religione è un insegnante come tutti gli altri, sottoscrive un contratto di “insegnamento” che lo lega giuridicamente allo Stato italiano e che ha come conseguenza quella di dover svolgere ciò che tecnicamente si chiama “funzione docente”, con tutti i suoi diritti e doveri tipici di un insegnante scolastico.
Qualcuno di voi potrà ricordarmi che l’IdR ha anche delle caratteristiche peculiari, diverse dall’insegnante generico, ed è vero: la sua esplicita appartenenza ecclesiale, certificata dall’idoneità, e una normativa quasi mai coincidente con quella generica dell’insegnante scolastico, rendono l’IdR un insegnante “speciale” nell’ordinamento scolastico italiano. Ma, attenzione, questo non significa che l’IdR sia diverso nell’esercizio della professione insegnante. L’IdR ha, o dovrebbe avere, le stesse competenze professionali di qualsiasi insegnante e gli stessi doveri di qualsiasi insegnante (oltre che i diritti, ovviamente). La sua particolarità, caso mai, aggiunge qualcosa ma non sottrae nulla alle competenze professionali. In questo senso la professione dell’IdR è più impegnativa di quella di un insegnante generico perché oltre le competenze professionali di qualsiasi insegnante l’IdR aggiunge delle competenze proprie, frutto dell’appartenenza ecclesiale e del modo “particolare” con il quale è selezionato, reclutato e assunto.
Queste competenze si aggiungono, quindi, si sommano a quelle generiche di ogni insegnante. Quali sono, però, le competenze professionali che accomunano ogni insegnante? Che caratteristiche hanno gli insegnanti per essere tali? Per molti decenni, almeno fino alla metà abbondante del XX secolo, si credeva che l’insegnante fosse un semplice impiegato dello Stato, tipo l’impiegato del Comune, non un vero professionista, quindi, uno che doveva eseguire degli ordini provenienti dall’alto della piramide amministrativa della pubblica istruzione. Dagli anni ’60 in poi si è iniziato a capire che quella dell’insegnante è, invece, una vera e propria professione, con tutte le caratteristiche proprie di ogni professione.
La caratteristica principale e fondamentale dello svolgere una professione è quella della libertà di scelta, quindi non eseguire semplicemente degli ordini provenienti dall’alto, dai superiori. La libertà di scelta che hanno i professionisti nasce dalle competenze specifiche che il professionista possiede. E dalla conseguente responsabilità che questa libera scelta comporta. A scuola questa libertà si chiama “libertà di insegnamento”. È una libertà certamente ampia, che si basa sulle competenze didattiche dell’insegnante e anche, però, sull’obiettivo di educare l’alunno, di farlo diventare un cittadino consapevole e ben attrezzato culturalmente: la scelta che ogni insegnante deve fare quotidianamente nel suo lavoro è quella di chiedersi quali strategie, quali metodi e quali tecniche didattiche sono necessarie a far apprendere un certo sapere a determinati alunni.
Questa libertà di scelta, però, avviene dentro dei limiti ben precisi. Limiti che non sono semplicemente negativi, anzi diciamo che sono dei limiti positivi perché senza questi “paletti” sarebbe impossibile inserire la propria libertà di insegnamento dentro un percorso utile ed efficace. È un po’ come gli argini del fiume che sono necessari a fare in modo che l’acqua del fiume arrivi al mare: senza gli argini il fiume diventerebbe uno stagno, una palude. Senza questi limiti la libertà di insegnamento sarebbe solo un girare a vuoto, un’attività autoreferenziale, fine a sé stessa.
La professione insegnante è vincolata, prima di tutto, dal fatto che si svolge a scuola. Non è un insegnamento informale, fatto per strada. Qualcuno potrebbe pensare erroneamente che l’attività di insegnante possa essere svolta ovunque, basta avere qualcuno che ha voglia di apprendere. E invece non è così. L’IdR è un insegnante scolastico e la scuola ha delle peculiarità che non possono essere dimenticate e che diventano essenziali per chi fa l’insegnante. Che cos’è la scuola? La scuola è una istituzione educativa che educa i ragazzi e le ragazze attraverso la trasmissione di un sapere. La trasmissione del sapere è la caratteristica tipica, peculiare, dell’educazione scolastica. Un insegnante scolastico non può pensare di fare opera educativa senza trasmissione del sapere. Anche l’IdR, quindi, non può pensare di educare solamente, lasciando come variante eventuale, come effetto collaterale, la trasmissione del sapere. Il che non vuol dire, ovviamente, fare solo delle “lezioni frontali”, ci sono migliaia di metodi e strategie didattiche più o meno innovative, più o meno efficaci, che possono essere utilizzate […], ma tutte però devono essere finalizzate a educare attraverso la trasmissione di un sapere. Mi ha dato sempre un po’ fastidio quelli che quando parlano di IdR utilizzano la forma retorica del contrapporli all’insegnante di matematica che, poverino, deve svolgere obbligatoriamente il programma, deve assegnare i compiti a casa, fare i compiti in classe, come se facesse un mestiere arido, privo di vere relazioni educative con gli alunni, ed invece l’IdR, all’opposto, lui sì non ha obblighi di programmi, non deve fare verifiche né mettere voti e quindi la sua azione educativa è più empatica e più immediata, più educativa. Non è vero. A parte il fatto che anche insegnare matematica è affascinante e se fatta bene apre prospettive relazionali ed educative molto importanti, a parte questo anche l’IdR, in quanto insegnante, ha un programma, le famose “indicazioni nazionali” da seguire, ha una progettazione annuale da realizzare, un libro di testo da seguire (che non è obbligatorio a caso) con dei contenuti da utilizzare, delle verifiche da sottoporre ai ragazzi perché verificare se un lavoro svolto è stato fatto bene, è stato efficace non è un’opzione, una scelta, ma una necessità, e poi l’IdR ha anche dei giudizi da scrivere in pagella, che non si chiameranno voti ma da un punto di vista sostanziale cambia davvero poco.
Un altro paletto, un altro limite positivo alla libertà di insegnamento è dato dalle risorse che la scuola mette a disposizione dell’insegnante e dell’insegnamento: a partire dalla struttura architettonica, dalla organizzazione delle aule, dall’organizzazione dei tempi (18 ore settimanali, un’ora per classe, etc.) per continuare con le risorse tecnologiche e per finire con le risorse economiche. Avere risorse adeguate è una necessità che riguarda direttamente l’esercizio della professione insegnante ed è per questo che è fondamentale, proprio dal punto di vista professionale, partecipare attivamente all’organizzazione scolastica, a vario titolo, da collaboratori del dirigente, a funzione strumentale, a membro di commissioni del collegio docenti, partecipare attivamente e non solo passivamente al collegio docenti, alla stesura del PTOF, oppure dal candidarsi per il consiglio d’istituto e, una volta eletti, contribuire a prendere decisioni organizzative ed economiche dell’intero istituto. Sono tutte cose che qualificano la professione dell’insegnante. Non sono cose da fare in più.
Un terzo limite alla libertà di insegnamento è dato dal “sapere” da trasmettere agli alunni. Un insegnante, qualsiasi materia insegni, non può dire quello che vuole agli alunni, anche in un contesto di libertà di insegnamento. A parte il fatto che se insegni storia non puoi fare delle lezioni di matematica o se insegni scienze non puoi fare lezioni di letteratura, anche quando insegni la tua materia non puoi insegnare quello che ti pare. Devi seguire le “indicazioni nazionali” (i programmi ministeriali) che a loro volta sono una sintesi di quanto è conosciuto, di quanto ormai è assodato, in quella certa disciplina. L’insegnante, anche nella sua libertà di insegnamento, deve rimanere in quei binari. Un insegnante di fisica non può insegnare il sistema tolemaico o la terra piatta.
L’insegnante di religione cattolica, ancora più precisamente, ha un vincolo aggiuntivo previsto dal concordato che è quello di dover insegnare in “conformità alla dottrina della Chiesa”. Che vuol dire? Certo non vuol dire che bisogna insegnare solo i “dogmi” della Chiesa o esclusivamente teologia cattolica sistematica, tralasciando magari tutte le importanti acquisizioni delle altre scienze delle religioni. No. Queste ovviamente vanno coltivate e va incrementata la loro conoscenza ma tutto all’interno dei valori e delle acquisizioni della bimillenaria storia del cristianesimo. Questa raccomandazione di etica professionale diventa evidente nelle questioni morali, soprattutto quelle legate a scelte nuove, magari all’utilizzo di tecnologie innovative, etc. Siccome non esistono dogmi o verità di fede in tema di morale a qualcuno potrebbe sembrare che si sia liberi di interpretare a piacimento alcune situazioni che si vengono a creare e di trasmettere quella propria interpretazione agli alunni. Non fraintendetemi, io sono contento e auspico, nel mio piccolo, che si formino e si esprimano coscienze mature, un laicato sempre più autonomo e consapevole del proprio ruolo. Ma a scuola abbiamo il vincolo della conformità alla dottrina della Chiesa e questo significa che prima di esprimere il nostro pensiero, per quanto elaborato e fondato nella fede possa essere, dobbiamo far conoscere quello che dice la tradizione della Chiesa sull’argomento, se esiste, e quelle che sono, se ci sono, le indicazioni delle autorità ecclesiastiche, dei vescovi, su quell’argomento.
Un’altra questione importante legata al fatto che a scuola gli insegnanti trasmettono un sapere agli alunni è l’annosa questione dell’indottrinamento. Ed è una questione che non riguarda solo noi IdR, anche se per noi poi le cose si amplificano, ma riguarda qualunque insegnante di qualsiasi disciplina. Infatti il sapere che viene trasmesso a scuola è inevitabilmente un sapere semplificato, modulato secondo le capacità cognitive degli alunni, della loro età e della loro condizione socio-culturale, etc. Ed è un bene che sia così, non si può a scuola proporre negli insegnamenti quello che si apprende all’Università, che è parte dei programmi di ricerca, del cosiddetto “sapere accademico”. Soltanto semplificando, adattando, traducendo questo sapere accademico in sapere scolastico si può essere dei bravi insegnanti. È una delle competenze fondamentali della professione insegnante.
Però, capite, che il pericolo è quello dell’indottrinamento. Che significa? Significa proporre il sapere necessariamente semplificato come se fosse chiuso, concluso, definitivo. Quando invece così non è. Non posso insegnare tutto, quindi, ma non posso neanche presentare la semplificazione come se fosse il tutto completo. Sapersi districare tra queste due estremi non è facile. Un metodo può essere quello di relativizzare il nostro insegnamento magari situandolo, quando è possibile, storicamente o geograficamente: quello che vi dico è vero per quell’epoca, è vero per noi in occidente, etc. Questo della relativizzazione storica e geografica è un ottimo esercizio per lasciare delle finestre aperte, per non chiudere e concludere il discorso. Quello che bisogna fare è lasciare intendere agli alunni che la realtà è molto più complessa di quello che hanno ascoltato, senza affrontarla questa complessità, soltanto lasciarla intendere.
Gli IdR in più hanno, poi, la questione della catechesi, cioè del divieto di fare catechesi nelle aule scolastiche durante la lezione. Insegnare in conformità alla dottrina della Chiesa e il divieto dell’indottrinamento potrebbe creare un po’ di confusione. Ma sapete benissimo meglio di me che così non è: nessuno di noi in aula afferma che questa cosa l’ha detta il papa, è scritta nel catechismo della chiesa cattolica o lo ha detto mons. Pennacchio, quindi è così zitti e basta. Il catechismo della chiesa cattolica è un importante strumento da utilizzare, però, nella preparazione delle lezioni non certo come libro di testo. Ma qui so di sfondare una porta aperta.
A questo punto possiamo provare a delineare, sinteticamente, una volta assodato che quella insegnante è una vera e propria professione, che tipo di professione è, come la si può descrivere. Se vi ingegnate a cercare quello che scrivono gli studiosi su questo argomento troverete le definizioni più svariate che non voglio neanche accennare a riassumervi. Quella che a me piace, però, che ho trovato più suggestiva e più vera è quella che dice che l’insegnante è un “artigiano morale”. Ora, su artigiano non credo ci siano problemi a capire: come l’insegnante anche il falegname è costretto a lavorare tenendo conto di tanti fattori, dalle condizioni oggettive del mobile da realizzare, dalle necessità del cliente, dal tipo di legno che deve lavorare, ma una volta stabilito tutto questo il falegname mette la sua arte, il suo senso del bello, le sue capacità artistiche, mette qualcosa di suo nell’opera. L’insegnante fa una cosa simile con i suoi alunni: rispettando i limiti che abbiamo appena visto, l’insegnante come l’artigiano ci mette del suo nelle relazioni educative con gli alunni, ci mette il suo modo di fare, di essere, la sua arte.
L’insegnante come un artigiano, quindi: ma perché “morale”? Per capire questo basta pensare che l’insegnante, a differenza del falegname, non lavora un materiale inerte come il legno ma lavora con degli esseri umani. I nostri alunni sono degli esseri umani. Quando un professionista lavora con degli esseri umani inevitabilmente esercita un potere su di loro. Un potere dato dalle loro competenze specifiche che il “cliente” non possiede, ed è il motivo per cui il cliente va dal professionista, ma le competenze del professionista incidono nella vita del cliente. Pensate al medico ma anche all’avvocato o all’architetto quanto le loro scelte incidono nella vita del cliente. È per questo che ogni professione ha il suo “codice deontologico”, cioè quel codice etico che fa in modo che il professionista si possa rapportare in maniera corretta con il cliente e con la sua vita. Ma se le professioni hanno un codice deontologico sono tutte professioni morali? No, perché le singole professioni non hanno come nucleo centrale della propria attività il rapporto con i clienti: se sei avvocato sarà la conoscenza e l’applicazione della legge il nucleo centrale della tua professione, se sei architetto la progettazione di edifici, se sei medico la cura delle patologie. L’aspetto etico, riassunto dal codice deontologico, quello che regola il rapporto con il cliente è un aspetto importante ma non è davvero il centro della vita professionale del professionista.
Questo vale per tutti i professionisti ma non per l’insegnante. L’insegnante ha come nucleo centrale della sua attività proprio il rapporto con i suoi clienti/alunni. È lì che si svolge la professione dell’insegnante ed è proprio questo rapporto a caratterizzare in senso morale tutta l’attività insegnante, non solo un aspetto importante ma secondario com’è nelle altre professioni. Per l’insegnante il rapporto con gli alunni è il centro della sua attività, e siccome è un rapporto asimmetrico dal punto di vista del potere, inevitabilmente questo rapporto è un rapporto “morale”, profondamente rilevante dal punto di vista etico. Gli insegnanti non accompagnano semplicemente i propri alunni in alcune scelte della loro vita, contribuiscono in maniera decisiva alla formazione della loro vita: gli alunni sono soggetti in crescita, in formazione, e costruiscono la loro personalità, il loro pensiero, il loro modo di essere grazie anche (non solo, per fortuna) al lavoro degli insegnanti che ogni giorno sono insieme a loro.
Ogni volta che noi insegnanti ci rapportiamo con i nostri alunni (e cioè sempre quando siamo a scuola) non svolgiamo semplicemente un mestiere ma siamo il punto di riferimento dei ragazzi che abbiamo sotto la nostra responsabilità. Punto di riferimento a cominciare semplicemente con l’esempio di adulti. Il rapporto insegnante/alunno è un rapporto asimmetrico a partire dal fatto che è un rapporto adulto/bambino, adulto/ragazzo. Ed ogni volta che imponiamo delle regole di comportamento, chiediamo dei compiti agli alunni, ci poniamo da guida nelle attività didattiche, siamo anche portatori di uno stile di vita, di valori che trasmettiamo inevitabilmente e involontariamente agli alunni: se nell’imposizione delle regole ci si pone in uno stile autoritario si trasmetterà la convinzione che le regole vanno rispettate per paura, se invece le regole sono condivise si trasmette la convinzione che le regole vanno rispettate per il buon funzionamento della vita sociale. Se un insegnante è pressappochista, poco professionale, non si prepara la lezione ma improvvisa al momento comunica agli alunni che il lavoro è qualcosa di poco importante, che si lavora solo per prendere o meglio rubare uno stipendio, che la furbizia è un valore positivo, etc. Sono solo esempi ma spero siano sufficienti a capire l’importanza del rapporto asimmetrico tra insegnante/adulto ed alunni/giovani, che va a toccare la vita stessa dell’alunno e quindi della responsabilità enorme che ha l’insegnante nei confronti degli alunni.
Un insegnante non tradisce la propria professione se mette al centro della sua attività i singoli alunni, con le loro facce e i loro nomi, con le loro storie, le loro passioni, i loro limiti e le loro aspirazioni. Il volto di un giovane, di un bambino soprattutto, è il volto di un essere che chiede aiuto, che è alla ricerca della propria identità e nella formazione della propria personalità. È alla ricerca di un senso della vita. Un insegnante non si può sottrarre alla richiesta di un volto aperto e curioso com’è quello di uno studente, di un volto che affida la sua vita all’insegnante, anche solo per qualche ora della giornata. Non si può sottrarre, soprattutto, davanti al volto dello studente che non vuole apprendere, che apparentemente resiste ad ogni azione di insegnamento, che ha difficoltà e si sente scolasticamente escluso ed emarginato. È a lui che è rivolto davvero l’insegnamento scolastico. Non a quelli che sono scolasticamente bravi per proprio conto, e che a volte apprendono e crescono nonostante la scuola. La scuola e l’insegnamento scolastico sono costruiti proprio per occuparsi di quegli alunni che se non ci fosse stata la scuola, e l’obbligo scolastico, non avrebbero mai avuto la possibilità di confrontarsi con la cultura, con un po’ di sapere, che non avrebbero mai potuto aprire la loro mente a nuovi mondi, a nuovi orizzonti.
Io credo che su questo tema l’IdR debba avere un di più di sensibilità. È vero che non è solo a lui che competono queste sensibilità, che anzi l’IdR fa più difficoltà degli altri colleghi perché ha tante classi, ha tanti alunni, si relaziona scolasticamente con loro per molto meno tempo degli altri. Ma è anche difficile pensare ad un insegnante come quello di religione che nelle sue lezioni parla di valori evangelici e poi non si ricorda chi sono gli alunni DSA, quanti PDP sono stati elaborati in una certa classe, il perché un certo alunno è BES, etc. Capite che anche solo professionalmente non è una bella cosa.
Ne va anche dell’immagine della Chiesa. Lo so che dal punto di vista formale non è proprio così, ma di fatto gli IdR rappresentano la Chiesa nella scuola. È vero che ci sono anche altri insegnanti cattolici ma sugli IdR grava inevitabilmente una responsabilità maggiore. Questo vale non solo per la Chiesa cattolica ma anche per il cristianesimo in generale e per le religioni tutte, anzi per “la” religione. Anche perché per moltissimi dei nostri alunni, l’IRC è l’unico momento della loro vita in cui sono venuti a contatto con la Chiesa, con il cristianesimo e la religione. Voi sapete anche che il nostro posto nel mondo scolastico non è di primo piano, per usare un eufemismo, forse neanche di secondo piano, e questo potrebbe comportare che anche la Chiesa cattolica, il cristianesimo e la religione vengano viste di secondo piano, di poco valore. Ma se noi assecondiamo, con il nostro comportamento professionale, questo giudizio, cioè ci comportiamo professionalmente come se non fossimo dei veri insegnanti, sentendoci e comportandoci in maniera diversa dai nostri colleghi “istituzionalmente più importanti”, noi confermeremo e anzi rafforzeremo questo giudizio sul poco valore delle cose religiose.
Vivere in maniera seria la nostra professionalità, a trecentosessanta gradi, dall’aspetto più strettamente didattico a quello organizzativo della scuola, anche se è molto faticoso, più faticoso che per gli altri insegnanti, significa ridare dignità alla religione, al cristianesimo, alla nostra Chiesa cattolica ma anche, e non è secondario, a noi stessi, capire davvero fino in fondo che facciamo un lavoro importante nonostante tutto”.
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