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Politici e migranti: i nuovi Fuorilegge

È cronaca di questi giorni che la magistratura italiana ha proibito al governo italiano di trasportare una parte dei migranti destinati al campo di segregazione costruito appositamente in Albania. È anche cronaca di questi giorni il processo a Matteo Salvini con l’accusa di aver sequestrato migranti, da lui chiamati “clandestini”, su di una nave, per giorni, senza aver dato loro il permesso di scendere.

La cosa veramente interessante di tutto questo è il giudizio politico che accompagna queste vicende: i giudici non possono intromettersi nell’attività amministrativa di un governo. Il governo è stato eletto dal popolo e ha il dovere di realizzare il programma verso cui ha ricevuto il consenso. Anche se la realizzazione di questo programma prevede azioni contro la legge, di cui i giudici sono i controllori.

Tutto questo fa tornare di moda il dibattito sui fuorilegge. Fuorilegge intesi non tanto come coloro che perseguono reati, problema sempre presente nella storia dell’umanità, quanto nel senso di essere “al di fuori della legge”, sopra o sotto che sia. Infatti, può essere perseguibile di reati soltanto chi è dentro un sistema legale, mentre chi è fuori dalla legge o è immune o è un non-soggetto, uno che non dovrebbe avere nulla a che fare con l’ordinamento, quindi allontanato o espulso. O sei un esponente del governo (o un governato) o sei un clandestino: avversi e avversari ma entrambi fuorilegge.

È da anni che in Italia si sentono fuorilegge, nel senso di essere al di là, sopra la legge penale dello Stato, prima di tutto i presidenti (vi ricordate i cosiddetti “lodo Schifani” o il “lodo Alfano” che volevano creare l’immunità alle alte cariche dello Stato?), i politici in generale, quelli convinti di essere loro la Legge perché la legge la fanno. Poi si sentono fuorilegge, sempre nel senso di essere al di là, sopra la legge ma in questo caso quella del mercato, il management aziendale che si organizza in cartelli, monopolizza un settore economico, inganna i consumatori spettacolarizzando la merce, contraffà i prodotti (specie se finanziari), commette quelle “truffe” senza rendersene conto, quelle che John K. Galbraith chiamava innocent fraud, quelle fatte, cioè, dai dirigenti d’azienda “a fin di bene” (aziendale, quindi, ma non di rado, personale). Poi ci sono i migranti, soprattutto quelli senza permesso di soggiorno, i clandestini appunto, che normalmente non hanno deciso di essere fuorilegge ma, avendo cambiato autonomamente e liberamente (nel senso di “senza permesso”, ma certamente spinti dal bisogno) luogo per vivere, si trovano a non aver nessun luogo dove vivere: niente territorio, niente legge.

La cosa strana davvero è che la non-legalità, diversamente dall’illegalità, sembra non essere conseguenza di un’azione, ma una conseguenza del ruolo che si ricopre, quasi una condizione esistenziale. Se sei clandestino ti tocca vivere esperienze umilianti senza avere colpa, cioè indipendentemente da ciò che fai: fughe, nascondigli, viaggi in condizioni inumane, internamento in campi di concentramento, chiuso dentro delle navi senza poter sbarcare a terra, guardato come colpevole, espulso. Tutto per entrare in un mondo in cui non solo non esisti ma dove non puoi esistere, nella segreta speranza che per te venga fatta un’eccezione. Se sei un politico o un dirigente di azienda ti senti autorizzato a fare cose, come ingannare, ad esempio, che da semplice consumatore o padre di famiglia non faresti mai. E questo ti sembra giusto, perché per il bene della nazione, dell’azienda, della famiglia bisogna fare un’eccezione. Complessivamente sembra che sia sbagliato dover rispettare una Legge che, nella sua generalità e universalità non tiene conto di te, della tua storia, delle tue aspirazioni, delle contingenze che, mano a mano, diventano sempre più importanti e decisive rispetto all’universalità della Legge.

La questione in gioco è quella della sovranità. La Legge, quella costituzionale o quella economica del mercato, sta perdendo pian piano la propria sovranità. L’avversione di Salvini per i diritti umani e quella dei “furbetti del quartierino” per l’economia di mercato sono una lo specchio dell’altra. Essere fuorilegge nel senso politico e manageriale è figlia dell’incapacità di governare all’interno di un ordine sovrano generale, universale. Per un uomo di governo amministrare diventa sempre più difficile se si abbandona alla generalità delle norme, se si lascia guidare dal determinismo della Legge, costituzionale o di mercato che sia.

La Legge si trasforma in Provvedimento amministrativo, l’universale si trasforma in particolare. Il Provvedimento come fonte giuridica sovrana, sganciato da ogni procedimento amministrativo generale, non è più un diritto ma un privilegio o un favore, la sua azione benefica non è conseguenza “naturale” o “normale” dell’essere cittadino o uomo, ma “eccezionale” o “miracolosa” dell’essere devoto. La “mano invisibile del mercato”, quella che nell’opera di Adam Smith trasformava il profitto individuale in ricchezza delle nazioni, non era una provvidenza miracolosa ma parte integrante della natura delle cose economiche, se lasciata fare senza i lacci e i lacciuoli delle tradizioni e dei governi. Oggi, invece, la “mano visibile del governo o del management” solleva dalla recessione economica, provvede ad incrementare ricchezza, porta benefici agli italiani in modo settoriale e particolare, scegliendo i soggetti destinatari dei provvedimenti.

In questo contesto si vengono a creare tre ordini di (nuova) cittadinanza:

  • i governanti, il cui potere fuorilegge (legibus solutus) li trasforma in sovrani assoluti (o ministri, managers, chiefs executive, o semplici furbetti che non fanno gli scontrini);
  • i governati, coloro ai quali provvede il governo, privilegiati e favoriti, miracolati perché devoti o aspiranti tali (o banchieri e imprenditori questuanti, o speculatori immobiliari ed evasori in attesa di condoni, o le varie “olgettine”, ecc…);
  • i clandestini, i non-governati, quelli esclusi dalla benevolenza del governo, i disgraziati che sono guardati con pena o sospetto, non baciati dalla provvidenza del provvedimento (o disoccupati senza cassa integrazione, o precari senza più contratti, o immigrati senza permesso di soggiorno, o fessi che pagano le tasse).

Il sistema del Provvedimento, evidentemente, non ci piace. Il sistema della Legge, però, non funziona più. Almeno fino in fondo. Il sistema di mercato, ad esempio, non funziona per le sue proprie logiche interne, per le sue leggi. Diceva Joseph A. Schumpeter, un centinaio di anni fa abbondanti, se un sistema economico è davvero concorrenziale i produttori sono costretti a vendere la loro merci ad un prezzo tale per cui il profitto sarà zero. Soltanto l’innovazione permette di mettere in disequilibrio il sistema per poterne trarre profitto. Perché allora, ci si chiede oggi, rispettare le leggi equilibratrici del mercato concorrenziale se esse non danno profitto? E se l’obbligo dell’imprenditore è rompere l’equilibrio del sistema perché non rompere l’intero sistema, se questo dà più profitto ancora?

Anche la legge statale non vive stagione migliore. Abbiamo già accennato che la pretesa universalità e generalità della Legge è da tempo messa in discussione. Se una legge è generale, universale, non parla a me, alle mie esigenze, alle mie particolarità. Quando si ragiona in astratto potremmo essere anche tutti d’accordo sulla universalità di una norma, di un diritto. Quando poi quella norma tocca il vissuto di qualcuno, la sua storia particolare, l’esistenza concreta di persone concrete la sua universalità è messa in discussione, continuamente: dal semplice parcheggiare in divieto di sosta (ma che fastidio dà? non ci sono parcheggi, devo andare in un posto importante, ecc.) al trovare scorciatoie per procedure burocratiche considerate troppo lunghe, ecc. La Legge è universale ma io sono portatore del diritto all’eccezione.

Che fare? L’eredità del cristianesimo

Se la Legge è male e il Provvedimento è peggio, che fare? Non lo so, ma se ci si volta a guardare al passato ci si accorge che proprio il cristianesimo, almeno quello delle origini, si presentava come eminentemente fuorilegge. Non nel senso che fosse avversato dalle autorità. Nel senso, invece, che pensava sé stesso come qualcosa di “altro” dalla Legge. Il Gesù dei vangeli è, in questo senso, il punto di riferimento obbligato, il paradigma del rapporto tra il cristiano e la Legge. Il comportamento di Gesù non è semplicemente illegale, egli non rifiuta la Legge né la interpreta in maniera eretica. Egli pone in sé stesso un nuovo fondamento al rapporto degli uomini con Dio e, parallelamente, al rapporto di convivenza tra gli stessi uomini («Avente sentito che fu detto… ma “io” vi dico»). Non è un rifiuto ma un superamento della Legge, un al di là, un fuori la legge, anche quella più ovvia della giustizia commutativa o distributiva (vedi la parabola degli operai nella vigna di Matteo 20,1-16). Certo, la Legge che Gesù superava era solamente la legge mosaica, ma nel contesto ebraico nel quale questo superamento avveniva, la legge mosaica era la più alta Legge possibile. Figuratevi le altre, come quella civile romana, ad esempio. Tutte, quindi, ogni legge in quanto Legge è superata. Il Regno di Dio è il regno della Carità non quello della Legge.

Chi, però, più di ogni altro sottolinea il superamento della Legge è Paolo di Tarso, soprattutto nelle lettere ai Romani e ai Galati. Il giudizio nettamente contrario alla Legge da parte di Paolo è così forte che arriva a dire non solo che la Legge non salva, quindi non serve, ma, addirittura, che egli ha conosciuto il peccato attraverso la Legge. Adempiere la Legge porta alla morte. È curioso questo discorso di Paolo perché peccare per lui non significa trasgredire una legge (morale o civile che sia) ma rispettarla. Impostare la propria vita nel rispetto di qualsiasi Legge porta alla rovina e alla morte.

Senza addentrarci troppo negli affascinanti quanto pericolosi meandri della “teologia politica” di san Paolo è curioso notare come neanche il Provvedimento è l’ideale delle relazioni uomo-Dio, quindi uomo-uomo. Il Provvedimento è per sua natura selettivo ed escludente, genera grazia per alcuni e disgrazia per altri. Se la Legge vive nel regno della necessità, il Provvedimento in quello dell’arbitrio. Poi è meritocratico e se c’è una cosa che infastidisce san Paolo è il merito, inteso proprio come premio, rin-graziamento per chi è stato fedele. Certo Grazia e Fede sono i termini positivi e importanti del linguaggio teologico paolino in rapporto alla negatività della Legge ma non nel senso del Provvedimento. Nel Provvedimento si è fedeli, devoti, per avere grazia, nella teologia paolina si è fedeli perché si ha il dono della grazia. Una differenza, questa, fondamentale nell’ambito di chi avversa la Legge. Se la fede, la devozione non è l’atteggiamento di chi cerca una giustificazione, una gratificazione ma è il contro-dono di un dono originario, il dono di sé da parte di Dio in Gesù Cristo, allora la fede porta a delle relazioni includenti, dove «non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna».

L’essere fuorilegge del cristiano non assomiglia affatto a quello del politico legibus solutus ma a quello del clandestino. Come il clandestino scappa dalla Legge del mercato che gli ha fatto conoscere miseria e morte, il cristiano è in fuga dalla Legge che impone sacrifici, persevera in capri espiatori, alimenta riti di purificazione che proibiscono contaminazioni e che “sulla strada da Gerusalemme a Gerico” trasforma i sacerdoti in operatori di morte. Come il clandestino si nasconde dalla Legge dello Stato che nega la sua esistenza e lo espelle se prova ad esistere, così il cristiano non solo avversa l’esercizio del potere come violenza e la giustizia come inquisizione delle coscienze ma persegue la liberazione dell’oppresso, il riscatto del povero attraverso quella fede operosa nella carità, quel farsi prossimo che “sulla strada da Gerusalemme a Gerico” trasforma l’eretico in operatore di vita.

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