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La guerra dopo Auschwitz

Auschwitz è stato, purtroppo, un luogo simbolo del XX secolo. E, come tutte i luoghi, è stato anche un tempo simbolo. Uno di quei tempi che segnano la distanza tra il prima e il dopo. Prima e dopo Auschwitz le cose non sono rimaste le stesse. Soprattutto nella cultura ebraica. La poesia, l’arte, Dio hanno un prima e un dopo Auschwitz, almeno secondo Theodor Adorno e Hans Jonas.

E la guerra?

Con la possibilità di essere smentito, credo che tra tutte le riflessioni fatte sul senso delle cose dopo Auschwitz, quella sulla guerra sia stata del tutto marginale. Nel 1948 l’ONU emanò un trattato internazionale, la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, un trattato che metteva al bando il genocidio ed obbligava gli stati firmatari ad applicare il divieto. Questa convenzione è stata, forse, l’unica occasione per affrontare un argomento di conflitto armato legato alla Shoà, rendendo fuorilegge lo sterminio di massa e il genocidio. Ma di fatto non lo erano già prima? Chi avrebbe mai pensato prima di Auschwitz che un conflitto tra nazioni, o all’interno di una nazione, avrebbe portato alla teorizzazione e alla mesa in pratica della eliminazione totale di un popolo? Nessuno. Il non dover più prevedere semplicemente stermini di massa e soluzioni finali nei conflitti dopo la Shoà non è una vera riflessione “dopo Auschwitz”, ne è forse una rimozione.

Nella cultura e nella politica ebraica, invece, le cose sono diverse. Si narra che Golda Meir una volta abbia detto a Shulamit Aloni che “dopo l’Olocausto gli ebrei possono fare quello che vogliono”. Al di là della correttezza storica di questa confidenza resta il fatto che essa è più che credibile. Bibi Netanyhau si sta impegnando non ad eliminare Hamas, una organizzazione terrorista, ma l’intero popolo palestinese. L’impressione è che Auschwitz abbia aperto la possibilità dello sterminio di massa verso la quale difficilmente si potrà tornare indietro.

E non è soltanto una questione di scelte di un governo, o se volete generalizzare, di uno stato. La possibilità dello sterminio è parte integrante della cultura ebraica di Israele e, in parte, anche di quella della diaspora. La nascita dello Stato di Israele, resa possibile proprio dal dopo Auschwitz, ha modificato il modo di leggere gli eventi storici degli ebrei. Essere stati vittime di un genocidio di massa e aver proiettato sullo Stato di Israele l’unica possibilità di sopravvivenza del popolo, come una sorta di sionista messia salvatore, ha reso possibile una difesa della nazione ebraica “a qualunque costo”, anche quello dello sterminio del nemico.

La lettura dei testi biblici e talmudici ha subito ugualmente un cambiamento, un adattamento alle esigenze storiche. La lotta contro Amalék, narrata nel capitolo 17 del libro di Esodo, che aveva attaccato di sorpresa il popolo d’Israele mentre era in cammino nel deserto verso la terra promessa per impedirne l’ingresso, e che Israele riesce a vincere grazie all’opera protettrice di Dio, non certo alle abilità militari di Giosuè, ora è diventata la lotta contro tutti i nemici dello Stato di Israele. La frase con cui i redattori del libro di Esodo chiudono la storia della sconfitta di Amalék («Allora il Signore disse a Mosè: “Scrivi questo per ricordo nel libro e mettilo negli orecchi di Giosuè: io cancellerò del tutto la memoria di Amalèk sotto il cielo!”»), cioè la cancellazione della memoria di Amalék e, quindi, di tutti gli amalechiti di tutti i tempi, è la giustificazione culturale-religiosa del genocidio degli attuali amalechiti, i palestinesi. Dimenticando che nel testo è il Signore che cancellerà la memoria di Amalék, non “Bibi” Giosuè.

È difficile giudicare per chi, come noi, vive sicuro nelle proprie tiepide case che significa davvero avere alle spalle storie di persecuzioni così devastanti com’è stata la Shoah, i pogrom antisemiti, i ghetti antigiudaici e tutte le discriminazioni che da un paio di millenni colpiscono il popolo ebraico. È davvero difficile capire che significa tornare a sera e trovare cibo caldo e visi amici per chi li ha sempre avuti, per chi ha avuto sempre una casa, del cibo e degli amici, e non ha dovuto continuamente spostarsi da una città all’altra perché espulso, che non ha dovuto giustificare il proprio modo di guadagnare cibo, che non ha dovuto nascondersi perché aveva degli amici.

È altrettanto certo, però, che è davvero difficile giustificare uno sterminio di massa per questi fini, riabilitare i metodi di Auschwitz dopo Auschwitz.

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