Lo abbiamo capito tutti che dopo la pandemia e la relativa chiusura delle attività economiche per quasi tre mesi riprendere la normalità sarà lungo e difficile. E abbiamo anche capito che uno degli strumenti fondamentali della ripartenza è il debito. L’idea è quella di farsi aiutare adesso che si è in difficoltà per poi riprendere il cammino e restituire quanto avuto in prestito. Semplice.
Ma il debito non è uno strumento facile. Né nuovo. Anzi. La pandemia è scoppiata in piena crisi economica che dal 2008 imperversa in tutto il mondo (una crisi che dura da dodici anni forse non è propriamente una semplice crisi ma un vero e proprio cambiamento strutturale, ma tant’è). In questi dodici anni il debito non ha fatto una bella figura. La Germania si è posta in maniera rigida come la guardiana della inviolabilità degli accordi: i debiti si restituiscono, anche a costo di grandi sacrifici. La Grecia è saltata, l’Italia ha rischiato di saltare un paio di volte per non parlare di altri paesi di altre zone del mondo più esposti. Il caso emblematico è l’Argentina che in questi giorni in piena pandemia da coronavirus, nella quale la spesa pubblica per servizi sanitari dovrebbe aumentare, sta rinegoziando il suo debito con i creditori intenzionati a fare in modo che l’Argentina non vada in bancarotta (e non sarebbe la prima volta), cioè spenda il meno possibile (quindi addio alla spese per la sanità, sacrificando i poveri malati all’altare del debito) e continui a pagare le quote del debito, almeno quelle degli interessi.
Il debito si sta mostrando per quello che è sempre stato, un dispositivo di potere. Il creditore domina il debitore. E il debitore è costretto a “vendere” la propria vita per ripagare il debito. Nel mondo antico (ma in molte zone del mondo purtroppo ancora oggi) il modo normale per diventare schiavo era non poter pagare i debiti. In un’epoca di affermazione dei diritti dell’uomo, di garanzie da tanti privilegi e discriminazioni, il sistema del debito non è stato mai preso in considerazione. Non solo, ma è diventato il centro della vita “civile” occidentale. Oggi l’intero sistema politico-economico-sociale si basa sul debito. Sia individuale che di Stato. Secondo una nota affermazione di Walter Benjamin, filosofo e intellettuale tedesco della prima metà del XX secolo, il capitalismo è una religione, «il primo caso di un culto che non conosce espiazione, bensì produce colpa e debito».
Germania ed Argentina, e il loro retroterra culturale e religioso, potrebbero aiutarci a rendere un po’ più complesso il ruolo che il debito svolge nella vita economica e più ampiamente culturale. Per capire meglio. Per non lasciare il dibattito alla banalità del commento emotivo. Nella lingua tedesca, ad esempio, “debito” si dice Shuld e “colpa” Shulden. Uguale. Non è difficile capire il retroterra culturale di questa vicinanza tra Shuld/Shulden. Nella storia delle religioni il rapporto uomo/Dio è pensato a partire dai rapporto uomo/uomo. Quello del debito è stato uno dei rapporti tra gli uomini più utilizzato per pensare il rapporto dell’uomo con Dio: gli uomini si sentono in debito nei confronti di Dio, che ci ha dato la vita e tutto quello che serve per vivere felici. L’uomo però non è in grado di ripagare questo debito. Qualsiasi dono l’uomo porterà a Dio, qualsiasi “sacrificio” quindi, sarà sempre insufficiente. Il debito nei confronti di Dio è impagabile. La tradizione ebraico-cristiana aggiunge al debito impagabile per la vita, la violazione del patto originario: la colpa. Per Lutero l’uomo davanti a Dio non può che prendere consapevolezza della propria colpa e affidarsi alla grazia della redenzione finale. Calvino, poi, sottolineando la fede nella predestinazione alla salvezza, fa del debito non pagato e della sua relativa povertà un segno della non predestinazione alla salvezza. Sei povero e indebitato, te lo meriti perché colpevole senza redenzione.
Questo retroterra culturale luterano-calvinista rende comprensibile la vicinanza semantica tra debito e colpa. Il debito è impagabile come lo è la colpa. La tradizione cattolica, invece, dovrebbe essere diversa. L’Argentina è pienamente inserita in quest’altra tradizione culturale. Ma che dicono i cattolici sul debito (e sulla colpa)? Non dicono cose diverse dai protestanti ma sottolineano la risposta dell’uomo alla grazia di Dio: “rimetti a noi i nostri debiti”, cioè la supplica che nel Padre Nostro il cristiano fa a Dio, viene accompagnata da “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Non è che la cancellazione del credito nei confronti dei nostri debitori comporti un diritto alla remissione dei nostri debiti nei confronti di Dio. No. Quello che evidenzia questo inciso del Vangelo di Matteo è che si può anche rifiutare il dono di Dio della cancellazione del debito, e lo si rifiuta comportandosi in maniera diversa da come Dio si è comportato con noi, cioè non cancellando i debiti dei nostri debitori.
La tradizione cattolica ha declinato questa concezione attiva dell’uomo nel debito nella logica dell’investimento. Una volta che hai avuto qualcosa da qualcuno il solo modo per ringraziarlo è farlo fruttare, investirlo, non tenere questo tesoro nascosto, chiuso da qualche parte. La parabola dei talenti del capitolo 25 del Vangelo di Matteo (ma anche il 19 del Vangelo di Luca) è emblematica e una delle basi dell’etica economica basso medievale soprattutto francescana.
Ma non è l’unico modo di declinare la concezione cattolica dell’uomo nel debito. L’altra è quella della cancellazione o remissione dei debiti. Infatti non tutti possono permettersi di investire il credito ricevuto. C’è chi ha bisogno di qualcosa solamente per sopravvivere. La permanenza del credito in una condizione di necessità è una delle massime ingiustizie. La formula del Padre Nostro “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” è devastante per la logica del debito su cui si regge la nostra economia contemporanea.
In Argentina, però, la formula del Padre Nostro non ha effetto. Nonostante l’Argentina sia la patria di Raúl Prebish, l’economista che ha iniziato negli anni ’50 del XX secolo la “teoria della dipendenza”, cioè quella teoria economico-sociale che ha evidenziato la dipendenza dei paesi economicamente periferici del sud del mondo dai paesi centrali, come quelli europei o nord americani, gli argentini non possono nella loro teologia economico-politica utilizzare la formula del Padre Nostro per sottolineare la mancanza di remissione dei debiti.
Come tutti sapete in Argentina si parla una lingua importata dalla Spagna, il castigliano. In casigliano il Padre Nuestro non parla di debiti ma di “offese”: «perdona nuestras ofensas,como tambien nosotros perdonamos a los que nos ofenden». La cosa è strana perché nell’originale greco del Vangelo di Matteo si parla proprio di “debiti”, quelli veri, non quelli metaforici del rapporto con Dio. Nella traduzione della Bibbia e dei vangeli in castigliano, anche quella ufficiale dei Chiesa cattolica, si continua ad utilizzare il termine “debiti”, come corretto. Invece nella prassi omiletica popolare la versione del Padre Nostro del catechismo che tutti recitano alla messa domenicale, si parla di “offesa”, neanche di colpa, di offesa. Ho scoperto che la Conferenza Episcopale spagnola ha imposto questo strano Padre Nostro ai fedeli spagnoli alla fine degli anni ’80 per uniformare la formula della preghiera con tutti i paesi di lingua castigliana al mondo, cioè quelli sudamericani, che già utilizzavano l’espressione “offesa” da tempo. Ho letto che negli anni ’70 si è diffusa in Sud America questa prassi e, pare ma non ho conferme, che sia stato proprio in Argentina ad essere utilizzata per la prima volta.
Insomma se la lingua tedesca impone una teologia economico-politica del debito centrata sulla colpa e sul senso di colpa di chi è in debito, quella spagnola non riesce a veicolare la teologia economico-politica concorrente, cioè quella della remissione dei debiti. Di nuovo il debito impone il suo dominio, anche nelle lingue, nelle preghiere e nelle liturgie. Un dispositivo dei poteri centrali per controllare le periferie del mondo.
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