Da qualche tornata elettorale si nota, soprattutto nelle comunali, un uso apparentemente esagerato di liste civiche. Raramente si vedevano liste civiche trent’anni fa o ancora venti anni fa, quando, a fare da padrone nei manifesti cartacei lungo le strade delle città erano quasi esclusivamente simboli di partiti nazionali. Oggi invece si fa difficoltà a trovarne di simboli nazionali. Si fa difficoltà a dire il vero, a trovare partiti politici nazionali. Molti si sono trasformati in aggregazioni politiche personali, con il nome e la faccia del leader più o meno conosciuto, altri addirittura sono nati come aggregazioni politiche personali. Qualcuno potrebbe concludere che è per questo che negli enti locali proliferano le liste civiche. In parte è vero ma non è così semplice.
Il civismo è l’anima della democrazia ed è indispensabile affinché la democrazia stessa non diventi semplicemente un esercizio elettorale. Lo diceva secoli fa Alexis de Tocqueville dopo un suo viaggio in America, patria della moderna democrazia. In America, notava sbalordito Tocqueville, la democrazia non è semplicemente un momento elettorale tra una dittatura (quella degli eletti) e l’altra ma esercizio di partecipazione continua:
«[…] ciò che non si può comprendere, senza esserne già stati testimoni, è l’attività politica che regna negli Stati Uniti. Siete appena scesi sul suolo americano e già vi trovate in mezzo ad una specie di tumulto; un clamore confuso si leva da ogni parte; mille voci giungono nello stesso tempo al vostro orecchio; ciascuna di esse esprime qualche bisogno sociale. Attorno a voi tutto si agita: qui, il popolo di un quartiere è riunito per sapere se si deve costruire una chiesa; là, si lavora alla scelta di un rappresentante; più in là, i deputati di una contesa si recano in tutta fretta in città per provvedere a certi miglioramenti locali; da un’altra parte, i contadini di un villaggio abbandonano i loro campi per andare a discutere il progetto di una strada o di una scuola. Alcuni cittadini si riuniscono al solo scopo di dichiarare che disapprovano l’operato del governo, mentre altri si riuniscono per proclamare che gli uomini al potere sono i padri della patria. Ed eccone altri ancora che, considerando l’ubriachezza come la fonte principale dei mali dello Stato, si impegnano solennemente a dare un esempio di temperanza» (A. de Tocqueville, La democrazia in America)
La partecipazione politica in Europa, e quindi anche da noi in Italia, ha avuto una storia diversa da quella americana ma non per questo la partecipazione civile alla vita democratica è stata meno interessante. Gli stessi partiti politici sono stati, almeno fino a metà novecento, delle semplici associazioni di cittadini, autentici luoghi di partecipazione politica. Forse non propriamente popolare questa partecipazione politica dei partiti italiani, più che altro associazione di notabili e borghesia emergente ma insomma in qualche modo potremmo chiamarla una prima forma di partecipazione popolare. Poi però i partiti si sono decisamente irrigiditi nelle loro rendite di posizione, esercitando il monopolio della partecipazione politica rendendola, di fatto, sterile. Negli anni ’80, quando si sono formati politicamente e civilmente quelli della mia generazione, la distanza tra la cosiddetta “società civile” e la “società politica” era già netta e chiara. La società civile era vivace, fatta di imprenditori, di opere di volontariato, di cenacoli culturali più o meno popolari, insomma da tutta una realtà economica, sociale, culturale che strideva davanti ad un mondo politico grigio, macchinoso, burocratico, autoreferenziale.
Negli anni ’90, finalmente, il sistema politico crolla, tra scandali e referendum la società civile si prende il suo posto da protagonista nel sistema politico. Ho visto nascere nella mia città un movimento politico di quartiere formato alla maniera americana. “Nuova Cittadinanza” si chiamava, e a mia memoria (che non è un gran che, a dire il vero) è stata l’unica lista civica presente nelle consultazioni elettorali comunali degli anni ’90 a Fermo e, tra i vari PDS, frammenti impazziti della vecchia DC, metamorfosi del PSI, è stata la lista che ha raggiunto i risultati maggiori, non tanto in termini di consensi (che pure non erano male) ma a livello di idee, programmi e partecipazione. La cosa interessante, per capire la differenza con oggi, è che Nuova Cittadinanza è nata prima di tutto non come lista elettorale ma come un gruppo di persone che avevano a cuore le sorti della città: hanno studiato, elaborato idee amministrative; poi hanno affrontato la questione se presentarsi alle elezioni e come.
Negli anni ’90, quando il civismo ha avuto il suo momento migliore, sono nate di fatto due tendenze civiche contrapposte, una di “destra” e una di “sinistra”. Quella di destra aveva come punto di forza il mondo economico, imprenditoriale, quello che ha nel successo il suo obiettivo e nella logica aziendale il suo metodo. Vari imprenditori hanno assunto l’onere di impegnarsi direttamente in politica, prestandosi come “salvatori della patria”, come “messia, unti del Signore”. Silvio Berlusconi è l’esempio più eclatante. Il suo movimento “Forza Italia” non è mai stato un vero partito politico, almeno in quel decennio. Era un prolungamento delle sue aziende, un pezzo di società civile che occupava lo spazio politico.
A “sinistra”, invece, la società civile è stata quella del mondo del volontariato, dell’associazionismo sociale, della cooperazione, dei movimenti parrocchiali, etc. Un mondo che ha avuto più difficoltà ad imporsi nel panorama politico perché i metodi utilizzati erano quelli più belli ma più complicati della discussione, delle decisioni condivise, dell’approfondimento. Diverso dalla logica aziendale ma egualmente appetibile nello spazio politico.
Poi, al passaggio del millennio, il civismo si trasforma e perde di forza. Il civismo di destra, apparentemente, si mostra vincente perché riesce ad informare il sistema politico dei suoi valori legati al successo, alla performance individuale, alle operazioni di marketing. In realtà è il sistema politico ad aver incluso selettivamente il modello aziendale nelle proprie logiche lasciando senza significato il civismo di destra. Oggi non si capisce perché un imprenditore dovrebbe essere “civicamente” migliore di un politico professionista quando i politici sono imprenditori di sé stessi, utilizzano gli stessi metodi pubblicitari delle aziende per vendersi nel mercato elettorale.
Il civismo di sinistra è imploso irreversibilmente. Il volontariato è finito, ed anche il suo ruolo politico. È finito perché è cambiato il mondo del lavoro, è diventato molto più esigente e precario, rendendo di fatto impensabile, se non a pochi fortunati, un’attività di volontariato nel tempo libero. Le varie associazioni, cooperative e imprese sociali, sono diventati semplici luoghi di lavoro per quanto utili, rincorrendo un sistema di welfare che mette una contro l’altra queste realtà sociali per accaparrarsi i pochi finanziamenti messi in campo. Un civismo che non vanta più solidarietà e comunitarismo come nel passato ma solo la mera sopravvivenza nella giungla degli appalti pubblici. Per non parlare, poi, dei cenacoli degli intellettuali, nei club di tendenza, sempre più lontani dalla vita reale dei milioni di cittadini.
Ma allora che civismo è quello di oggi? Cosa rappresentano le decine di liste civiche che proliferano in ogni competizione elettorale? Sono semplicemente contenitori per candidati, vuote operazioni di marketing elettorale, senza politica, senza progettualità. Non partecipano neanche alla stesura del programma o se lo fanno gli sta bene tutto perché sanno benissimo che tanto il programma elettorale non conta nulla, quello che conta è vincere ed essere eletti, poi le cose da fare si trovano. A volte sono luoghi per il riciclaggio del “politico sporco” che si camuffa nel calderone della lista e si ripresenta come nuovo. Oppure semplici liste civetta per candidati sindaci senza ideologie (e senza idee) che prendono tutto perché quello che conta è vincere, non amministrare bene.
Alla faccia di Alexis de Tocqueville.
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